Se il lavoro da sogno non si rivela tale
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Domande e risposte
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Il contratto di lavoro contiene un divieto di concorrenza. Il divieto prevede che io a) non possa cercare di acquisire pazienti personali durante il mio periodo di assunzione e b) una volta terminato il rapporto di lavoro, non possa aprire alcuno studio medico in un raggio di 20 km dall’ex posto di lavoro. In caso di violazione dovrei pagare una penale di CHF 30’000.–. Secondo me equivale a un divieto di esercitare la professione. Mi consigliate di firmarlo?
Divieto di concorrenza:
a) Durante il periodo di assunzione
In linea di principio è chiaro che, cercare di acquisire pazienti personali durante un rapporto di assunzione, costituisce una violazione dell’obbligo di fedeltà. Tale comportamento può essere legittimamente sanzionato con una penale convenzionale intesa quale misura disciplinare. La penale deve tuttavia essere proporzionata e non deve costituire un risarcimento per un eventuale danno derivante dall’acquisizione di pazienti. La penale convenzionale di CHF 30’000.– fissata nel suo caso dipende, tra l’altro, dal suo salario. Io le consiglierei di far cancellare questa clausola, in quanto comporta per lei notevoli rischi. Nell’ambito di un processo, lei dovrebbe infatti dimostrare di non aver tentato di acquisire qualsiasi paziente che abbia deciso di affidarsi a lei.
b) Divieto di concorrenza postcontrattuale
Contrattualmente, è possibile concordare la possibilità di fare concorrenza entro determinati limiti anche per il periodo successivo alla fine del rapporto di lavoro. Il divieto di concorrenza richiede una regolamentazione scritta nel contratto di lavoro. La clausola contrattuale deve fornire indicazioni su durata, estensione geografica e oggetto del divieto. La consuetudine prevede una durata di ca. 6 mesi. Il termine massimo di tre anni è probabilmente legittimo solo in rari casi. L’attività vietata non può avere un’estensione superiore ai rapporti commerciali intensivi dell’ex datore di lavoro e alla sfera di attività del lavoratore (nel presente caso è determinante in linea di principio il bacino di utenza dello studio medico). Inoltre, deve essere stabilito a quale attività si riferisce il divieto di concorrenza. Quindi, ad esempio, se è riferito a uno studio cardiologico o a uno ginecologico. Se il divieto di concorrenza nei settori citati appare eccessivo, il giudice può ridurlo alla misura legittima.
In generale, non esiste alcun tipo di professione per la quale un divieto di concorrenza sia in generale illegittimo. La professione medica è però una cosiddetta libera professione e quindi, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, un divieto di concorrenza non è ammissibile. Determinanti sono tuttavia sempre le circostanze concrete del rapporto di lavoro. Nella giurisprudenza, si presume che i pazienti abbiano un rapporto di fiducia speciale con il loro medico e che quindi, in quanto medico, non si possa assolutamente rientrare nel divieto di concorrenza. Per eliminare qualsiasi equivoco, le consiglio di far cancellare la clausola relativa al divieto di concorrenza prima della firma del contratto.
Claudia von Wartburg, giurista e direttrice di entrambe le sezioni asmac di Basilea, «Giornale asmac» 3/2021
Presso l’ospedale X mi è stato offerto un posto come medico assistente. Ho accettato verbalmente. Ora ho ricevuto un’offerta ancora migliore, con più possibilità di perfezionamento professionale e un salario più elevato. Vorrei accettare la seconda offerta di lavoro. Posso recedere dall’accettazione del primo posto di lavoro? Quali aspetti vanno considerati?
Se ha concordato con il datore di lavoro i principali punti del contratto, con la sua accettazione verbale è venuto in essere un contratto di lavoro valido. Gli elementi di un contratto di lavoro sono: messa a disposizione di ore di lavoro, integrazione in un’organizzazione lavorativa di terzi e diritto al salario. Se c’è accordo su questi punti è venuto in essere un contratto di lavoro valido. Il contratto non deve essere obbligatoriamente stipulato in forma scritta.
Lei non può semplicemente recedere da un contratto di lavoro giuridicamente vincolante. Vale infatti il principio che «pacta sunt servanda» (lat.; it.: i contratti vanno rispettati). Il contratto di lavoro può essere rescisso mediante disdetta o in modo consensuale.
Nel caso della disdetta si applicano i termini di preavviso previsti dalla legge o concordati. Se lei comunica al datore di lavoro la sua disdetta ancor prima di entrare in servizio, il termine decorre solo dal primo giorno di lavoro concordato. Di norma sussiste un periodo di prova con termini di preavviso reciproco più brevi. Secondo il Codice delle obbligazioni (CO), il primo mese del rapporto di lavoro è considerato periodo di prova con un termine di preavviso di sette giorni. Sono ammessi accordi in deroga. È ugualmente consentita anche la rinuncia al periodo di prova. In tal caso si applicano i termini di preavviso regolari. Nel primo anno di servizio vige un termine di preavviso di legge di un mese. Sono possibili soluzioni differenti.
Durante tale termine di preavviso, il lavoratore è tenuto a fornire le prestazioni lavorative. Tuttavia, siccome spesso non è nell’interesse del datore di lavoro interrompere il rapporto di lavoro dopo poco tempo, è probabile che dia il suo consenso alla risoluzione consensuale. Se la risoluzione ha luogo prima dell’entrata in servizio, non è più necessario prendere servizio.
Tuttavia, se il datore di lavoro non accetta la risoluzione del contratto di lavoro in essere e ne pretende il rispetto, prendere servizio è obbligatorio. Se lei non lo fa, ad esempio perché ha già accettato un altro posto di lavoro, il datore di lavoro dal punto di vista giuridico lo considererà come un licenziamento senza preavviso e senza gravi motivi da parte della lavoratrice. A tale proposito, l’offerta di un posto di lavoro migliore non è considerata un grave motivo che giustifichi la mancata entrata in servizio. La conseguenza è che lei sarà tenuta al pagamento di un risarcimento danni. Entro 30 giorni, il datore di lavoro ha il diritto di richiedere, mediante azione legale o esecuzione forzata, un risarcimento pari a un quarto del salario mensile concordato. Inoltre, può essere richiesto un ulteriore risarcimento se sono stati effettivamente causati dei danni.
Riassumendo, si può affermare che lei deve informare senza indugio il datore di lavoro in merito alle sue intenzioni. È meglio che lo faccia per iscritto per disporre di una prova. È opportuno cercare urgentemente di risolvere il contratto consensualmente.
Se ha domande o dubbi sul fatto che sia stato effettivamente stipulato un contratto di lavoro valido, non esiti a contattare per tempo la sua sezione asmac. In tal modo potrà evitare problemi e significative conseguenze finanziarie.
Samuel Nadig, giurista e direttore della sezione asmac Grigioni, «Giornale asmac» 1/2018
Contratti collettivi di lavoro e Legge sul lavoro
Vi è spesso incertezza riguardo alla portata giuridica dei contratti collettivi di lavoro (di seguito detti CCL), della Legge sul lavoro e delle relative ordinanze. È quindi importante definirle e spiegarne le differenze principali.
- Contratto collettivo di lavoro (CCL)
Il CCL è un contratto tra una o più associazioni dei datori di lavoro e/o uno o più datori di lavoro da un lato e una o più associazioni dei lavoratori dall’altro. Tale contratto regola i rapporti e i contratti di lavoro individuali che vengono stipulati dai membri di tali associazioni (oppure dai singoli datori di lavoro). Il CCL disciplina i rapporti di lavoro tenendo in considerazione le peculiarità del settore e delle professioni. Di norma, i CCL concedono ai lavoratori diritti aggiuntivi rispetto a quelli previsti dal Codice delle obbligazioni, in particolare prevedendo salari minimi e un limite o una limitazione dell’orario di lavoro. Il campo di validità di un CCL è limitato e definito nel CCL stesso. Un CCL può, ad esempio, essere applicabile solo ai medici assistenti e ai capiclinica. Le altre professioni ne sono quindi escluse. - Lavoro e ordinanze
La Legge sul lavoro, che fa parte del diritto pubblico federale, ha come obiettivo la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici da pregiudizi correlati al posto di lavoro. Da un lato, contiene norme sulla protezione generale della salute e, dall’altro lato, norme sugli orari di lavoro e di riposo. La Legge sul lavoro costituisce il fondamento per la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici in Svizzera. In linea di principio, la Legge sul lavoro si applica a tutte le imprese private, ad eccezione della pubblica amministrazione. Esiste tuttavia una serie di eccezioni. Dal 2005, i medici che stanno svolgendo il perfezionamento professionale, ivi inclusi quelli che lavorano in ospedali pubblici, sono soggetti alle disposizioni della Legge sul lavoro.
Cinque ordinanze integrano la Legge sul lavoro. La OLL 1 e la OLL 2, in particolare, contengono disposizioni concernenti i medici che svolgono il perfezionamento professionale e il lavoro in ospedale.
Le disposizioni della Legge sul lavoro e delle relative ordinanze sono cogenti. Ciò significa che, non sono consentite deroghe a sfavore dei lavoratori, anche se le controparti contrattuali o del CCL danno il proprio consenso al riguardo. Se viene stipulata una regolamentazione in deroga, essa è giuridicamente inefficace e, in caso di controversia, nessuno vi si potrà appellare.
- Situazione negli ospedali riguardo ai medici in perfezionamento professionale
Dato che un CCL può contenere una sintesi delle norme della Legge sul lavoro, bisogna fare distinzione tra le disposizioni del diritto federale e i contenuti negoziabili dalle parti sociali. Tra questi vi sono ad esempio:
Norme vincolanti della Legge sul lavoro
- Protezione delle donne incinte e delle madri allattanti
- Lavoro straordinario
- Tempo di riposo
- Numero di domeniche libere al mese
- Definizione del servizio di picchetto
- …
Regole che possono essere oggetto di negoziazione
- Salario
- Orario di lavoro (< 50 ore)
- Pagamento della formazione e del perfezionamento professionale
- Definizione delle funzioni
- …
È molto importante conoscere queste differenze, al fine di evitare inutili discussioni su problematiche che non possono essere influenzate dall’asmac.
Patrick Mangold, giurista delle sezioni asmac Giura e Vaud, «Giornale asmac» 3/2022
Contratti a tempo parziale: rischio di discriminazione indiretta tra uomini e donne
I rapporti di lavoro non possono contenere alcuna discriminazione tra donne e uomini. Lo vieta espressamente la Legge federale sulla parità dei sessi (art. 3 LPar).
Il divieto non riguarda solo la discriminazione diretta (che risulta evidente già da una semplice contrapposizione), ma anche quella «indiretta», nel senso di circostanze svantaggiose in cui donne e uomini sono apparentemente trattati allo stesso modo, con le donne esposte però a discriminazioni con frequenza nettamente superiore.
Concretamente, tale discriminazione indiretta la troviamo, ad esempio, nel caso di contratti di lavoro con adeguamento salariale annuale in base all’anzianità di servizio, se alla lavoratrice in questione viene offerto il passaggio al part-time. Spesso gli adeguamenti non avvengono annualmente sulla base dell’orario di lavoro prestato percentualmente, bensì sulla base degli anni di servizio svolti e quindi, nel caso di un’occupazione al 50 percento, l’adeguamento viene effettuato (solo) ogni due anni. Le conseguenze sono evidenti e generano notevoli svantaggi economici.
Su questo punto, la prassi – che spesso non è chiaramente disciplinata nei contratti di lavoro – sembra sviluppare una logica propria: gli adeguamenti annuali «premiano» l’esperienza professionale accumulata, motivo per il quale, per accumulare la stessa esperienza, la persona occupata al 50 percento necessita del doppio del tempo rispetto a una occupata a tempo pieno. È un dato di fatto però che, a causa di tale prassi, un potenziale aumento salariale diventi meno probabile, senza che esista alcuna prova del fatto che l’occupazione a tempo parziale comporti una minore esperienza professionale equivalente. Un altro dato di fatto è che questo svantaggio riguarda soprattutto le donne che lavorano più spesso a tempo parziale (principalmente per motivi familiari).
Anche il Tribunale federale si è occupato della questione, stabilendo che sussiste una discriminazione laddove l’applicazione di regolamentazioni formalmente neutre produca effettivamente risultati che – senza alcuna giustificazione – siano più negativi per gli appartenenti a un sesso che per gli appartenenti all’altro sesso. Secondo l’Alta Corte, ciò vale in particolare nel caso venga attribuita un’importanza eccessiva a criteri come l’anzianità di servizio e l’esperienza lavorativa, penalizzando così le donne che interrompono/rallentano la loro carriera professionale per dedicarsi all’educazione dei figli (vedi DTF 142 II 49, cons. 6.1; DTF 124 II 409, cons. 9d).
Confrontata con una situazione concreta, nell’aprile 2021 la delegata del Consiglio di Stato ticinese, facendo riferimento alla sopraccitata sentenza del TF, ha confermato che, ai fini del calcolo degli adeguamenti salariali per il personale di un ospedale con occupazione a tempo parziale, sussisteva una discriminazione se i suddetti adeguamenti consideravano in misura eccessiva il grado di occupazione.
Lorenza Pedrazzini Ghisla e Luigi Pedrazzini, avvocati della sezione asmac Ticino, «Giornale asmac» 2/2022
Lavoro in ospedale da circa sei mesi con un orario di 50 ore settimanali. Registro regolarmente le mie ore (ora di inizio e fine lavoro, pause) mediante l’apposito software messo a disposizione dall’ospedale. Lo scorso mese ho accumulato 30 ore di straordinario. Una volta terminato il mese, ho tuttavia constatato che mi erano state registrate solo 10 ore e che il mio saldo delle ore di straordinario era di «sole» 70 ore (anziché 90). I miei superiori non mi hanno informato riguardo a questa riduzione. La differenza mi è balzata all’occhio solo dopo avere confrontato il conteggio da me compilato con quello che ho ricevuto dopo la chiusura del mese.
Se le circostanze lo richiedono, il lavoratore è tenuto a svolgere ore di lavoro straordinario nell’interesse del datore di lavoro. È tenuto a farlo in particolare se il suo datore di lavoro lo pretende. Le ore di lavoro straordinario possono essere prestate anche su iniziativa del lavoratore, cioè senza che il datore di lavoro lo richieda espressamente. Se il datore di lavoro è a conoscenza del fatto che vengono prestate ore di straordinario e non le rifiuta, il lavoratore può lecitamente presumere che il datore di lavoro le approvi, proprio come se le avesse ordinate esso stesso. In tale contesto, non ha alcuna rilevanza se le ore fossero o meno necessarie. Se invece il datore di lavoro non è a conoscenza delle ore di straordinario prestate, il lavoratore è tenuto a comunicarlo senza indugio, affinché il datore di lavoro possa adottare le misure organizzative necessarie per evitare o approvare ulteriori ore di lavoro straordinario in futuro. In assenza di notifica da parte del lavoratore, le ore di lavoro straordinario non possono essere prese in considerazione. Se il datore di lavoro contesta le ore di straordinario dichiarate, si pone la questione della loro necessità, cioè se fossero indispensabili per il buon funzionamento dell’azienda o siano state prestate palesemente nell’interesse dell’azienda.
Va considerato anche che, in caso di controversia, spetta al lavoratore dimostrare che le ore prestate soddisfano tali requisiti. Il lavoratore deve inoltre fornire una prova del numero di ore di straordinario effettuate.
Che cosa succederà ora alle mie ore di straordinario?
Nel suo caso, è necessario accertare se l’ospedale abbia o meno rifiutato le ore di lavoro da lei prestate. Dato che lei ha registrato regolarmente le sue ore di lavoro mediante il software messo a disposizione, l’ospedale doveva essere a conoscenza del fatto che lei le stava prestando. Si pone quindi la questione se le sue ore di lavoro siano state approvate e, in caso contrario, se fossero necessarie.
A tale riguardo, lei deve fare distinzione tra le ore prestate nei sei mesi precedenti e quelle svolte il mese scorso. Durante i primi sei mesi della sua attività, lei poteva infatti presumere in buona fede che, in assenza di una reazione, l’ospedale avesse approvato le ore prestate. Le ore da lei svolte devono essere pertanto compensate con tempo libero oppure pagate, indipendentemente dal fatto che fossero o meno necessarie.
Per le ore lavorate il mese scorso invece, lei non può più presumere in buona fede che l’ospedale le abbia approvate, avendo infatti constatato che non sono state interamente registrate al momento della chiusura del mese (solo 10 ore anziché 30). Dall’altro lato però, l’ospedale avrebbe dovuto opporsi con veemenza se fosse stato dell’opinione che quelle 20 ore non fossero necessarie.
Inoltre, l’ospedale avrebbe dovuto adottare misure organizzative atte a evitare ulteriori ore di straordinario. I suoi superiori invece non le hanno comunicato nulla e lei ha dovuto continuare a prestare ore di straordinario come in precedenza. Le consiglio quindi di parlarne direttamente con i suoi superiori e con l’ufficio del personale.
Io però, per i primi sei mesi, non ho conservato alcuna copia dei rispettivi conteggi. Non so quindi più quante ore di lavoro straordinario ho prestato e nemmeno se l’ospedale ne abbia cancellate una parte.
Dal momento che esiste un tool per la registrazione degli orari, lei può richiedere i conteggi in questione anche a posteriori. Il software deve garantire la tracciabilità di ogni registrazione e modifica. Lei può quindi confrontare il conteggio nella versione antecedente e successiva alla validazione. Come già accennato, deve essere preso in considerazione il suo conteggio delle ore (quindi non solo le 60 ore che l’ospedale ha conteggiato durante i primi sei mesi).
Riassumendo, si può affermare che, indipendentemente dal caso concreto, può essere molto utile effettuare «screenshot» o foto dei conteggi delle ore, prima di trasmetterli ai fini della contabilizzazione. Se, così facendo, si constatano delle differenze, è opportuno discuterne direttamente con i propri superiori e con l’ufficio del personale.
Joël Vuilleumier, avvocato e giurista della sezione asmac Neuchâtel, «Giornale asmac» 6/2022
Dato che gli ospedali, per poter garantire le capacità richieste dai pazienti con COVID-19, per un certo periodo sono stati obbligati a rinviare gli interventi elettivi, molti medici hanno accumulato ore negative. È corretto che tali ore negative vengano mantenute nel sistema, sostenendo semplicemente che il saldo delle ore negative non avrebbe alcun influsso sulla pianificazione dei turni e che tali ore, al momento dell’uscita, non saranno considerate?
No. Perché un sistema di questo tipo significa che ogni nuova ora di lavoro straordinario prestata si intende già compensata da un’ora negativa già presente. In tal modo il lavoro straordinario non verrebbe compensato tramite riposo. Ciò significa inoltre che il rischio di non poter fornire prestazioni durante la pandemia di coronavirus viene trasferito ai collaboratori, sebbene debba essere riconosciuto che sussiste un caso di mora del datore di lavoro ai sensi dell’art. 324 CO. Si può presupporre che sussista un caso di questo tipo se i lavoratori offrono il proprio lavoro, ma il datore di lavoro non ne usufruisce. Cioè, sostanzialmente, quando non sussiste la possibilità di lavorare.
Ovviamente il datore di lavoro può sostenere di non essere responsabile della propria mora. È infatti indiscutibile che sia stata la pandemia a causare la riduzione dell’attività aziendale. Tuttavia, la responsabilità di questa situazione non è sicuramente del singolo lavoratore. Le disposizioni sono state emanate dalla Confederazione e prevedono che, laddove le aziende abbiano dovuto ridurre o sospendere la propria attività, sussista la possibilità di ottenere un’indennità per lavoro ridotto. In tal modo si compensa il rischio di un «obbligo di pagamento continuato del salario in assenza della prestazione lavorativa». Mentre gli ospedali privati hanno ricevuto indennità per lavoro ridotto, ciò non vale per gli ospedali gestiti da enti pubblici. Perché? Perché la Segreteria di Stato dell’economia (SECO) parte dal presupposto che le aziende di diritto pubblico non siano esposte ad alcun rischio aziendale effettivo. In altre parole: dietro a queste aziende c’è lo Stato, cioè la mano pubblica. In tal senso, anche il rischio correlato all’obbligo di pagamento continuato del salario è a carico della mano pubblica e non può essere trasferito ai lavoratori generando ore negative.
Bettina Surber, avvocato della sezione asmac San Gallo/Appenzello, «Giornale asmac» 5/2021
Le ore negative generatesi durante il periodo del Covid-19 devono essere recuperate? Che cosa succede se all’inizio della pandemia si avevano ore supplementari?
All’inizio della fase del Covid-19, nella consulenza legale prevaleva l’esigenza di evitare il rischio di ore supplementari. Poi è rapida-mente emerso che, a causa del lockdown e della direttiva ad esso correlata di non eseguire più gli interventi elettivi, nonché della curva piuttosto piatta quantomeno nella Svizzera tedesca, si sono generate ore negative per le quali è necessario trovare una soluzione.
Inoltre, sulla base dell’Ordinanza 2 sui provvedimenti per combattere il coronavirus (COVID-19), nei reparti che avevano registrato un massiccio aumento del lavoro a causa del Covid-19, dal 16 marzo 2020 al 31 maggio 2020, la Legge sul lavoro è stata sospesa per quanto concerne la regolamentazione dell’orario di lavoro e di riposo. Tale cambiamento ha reso possibile in particolare un funzionamento su due turni e il lavoro in team, causando però una sottoprogrammazione e generando ulteriori ore negative.
Le conseguenze delle ore negative causate dal Covid-19 non devono ricadere sul personale. Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, se il lavoro è stato offerto e il datore di lavoro non è stato in grado di assegnare un compito, si tratta di un classico caso di mora nell’accettazione da parte del datore di lavoro (art. 324 CO). In tali circostanze è dovuto l’intero salario e il pagamento delle ore negative è l’unica soluzione corretta – il rischio imprenditoriale non deve essere trasferito al personale, nemmeno durante una pandemia.
Ci si chiede spesso che cosa significhi questo per i collaboratori il cui saldo orario all’inizio della pandemia era positivo. La compen-sazione di ore supplementari è possibile solo con il consenso del lavoratore (art. 321c cpv. 2 CO). Di conseguenza, il datore di lavoro in linea di principio non può ordinare la compensazione delle ore supplementari se si verifica una perturbazione dell’esercizio. Dall’art. 321 CO risulta l’obbligo del lavoratore di collaborare in buona fede alla compensazione delle ore supplementari se interessi prepon-deranti del datore di lavoro lo richiedono e non vi sono interessi rilevanti del lavoratore che vi si oppongano. Di norma sarà ragionevole pretendere dal lavoratore la compensazione delle ore supplementari se l’azienda chiude o riduce il lavoro a causa della pandemia. In tal caso il lavoratore è tenuto ad accettare la compensazione.
L’asmac, in collaborazione con H+ e ASI-SBK, ha elaborato un foglio informativo ad uso delle aziende in questione e del loro personale su come procedere concretamente, in particolare per quanto concerne le ore negative. Su tale base, le sezioni si sforzano di trovare soluzioni eque nell’ambito dei partenariati sociali esistenti. Per poterlo fare, le sezioni dipendono dalle informazioni da parte vostra e sono pertanto grate per qualsiasi segnalazione di procedure non corrette sul posto di lavoro che richiedano un intervento della sezione locale dell’asmac oppure per qualsiasi altra domanda su questioni giuridiche.
Janine Junker, avvocato e direttrice della sezione asmac Berna, «Giornale asmac» 5/2020
Un medico assistente si è infortunato qualche giorno prima della scadenza del contratto di lavoro a tempo determinato con l’ospedale X e può iniziare l’attività per il nuovo datore di lavoro, l’ospedale Y, solo 20 giorni dopo la data prevista. Quali sono le conseguenze? Quale datore di lavoro deve effettuare i pagamenti continuati del salario? La situazione in atto influenza il contratto di lavoro con l’ospedale Y?
Essendosi l’infortunio verificato durante il periodo di assunzione presso l’ospedale X, il riconoscimento del caso e il pagamento delle indennità giornaliere spettano all’assicurazione contro gli infortuni del datore di lavoro X e le indennità giornaliere sono dovute anche oltre la fine del rapporto di lavoro. L’incapacità lavorativa e le sue conseguenze non sono assicurate presso il nuovo datore di lavoro in quanto l’evento scatenante si è verificato prima dell’entrata in servizio.
Dopo aver ricevuto la comunicazione da parte del medico assistente, il datore di lavoro Y gli ha chiesto di firmare un nuovo contratto di lavoro con una data di inizio successiva a causa della sua incapacità lavorativa. Ciò non è necessario, poiché durante il periodo di inabilità al lavoro il datore di lavoro Y non è tenuto al pagamento continuato del salario. Inoltre, un eventuale periodo di prova deve essere prolungato per un numero di giorni pari alla durata della riduzione effettiva, in quanto altrimenti lo scopo del periodo di prova non può essere raggiunto. In caso di assenze prolungate, vi è inoltre il rischio che il rapporto di lavoro venga risolto già durante il periodo di prova, poiché non è previsto alcun periodo di divieto di disdetta in caso di malattia, infortunio o maternità.
In caso di adeguamenti contrattuali e assenze, non vanno trascurate nemmeno le regolamentazioni concernenti il computo del periodo di perfezionamento professionale sulla base dell’art. 31 del Regolamento per il perfezionamento professionale. Il relativo foglio informativo dell’ISFM serve ad avere un quadro chiaro della questione. In linea di massima, vale la regola che le assenze senza colpa fino a otto settimane all’anno non devono essere recuperate e il periodo di perfezionamento professionale viene conteggiato per intero.
Tale costellazione rende evidente che, in caso di incapacità lavorativa, i contratti a tempo determinato presentano dei rischi dei quali bisogna essere consapevoli. Inoltre, in caso di pause tra due posti di lavoro, vale la pena di esaminare attentamente la situazione assicurativa. L’assicurazione contro gli infortuni garantisce una copertura successiva per 30 giorni, dopo la quale è possibile stipulare un’assicurazione convenzionale con una durata fino a 180 giorni prima che il rischio di infortunio debba essere incluso nell’assicurazione malattia. L’assicurazione dell’indennità giornaliera di malattia invece non garantisce alcuna copertura successiva e offre solo la possibilità di passare a un’assicurazione individuale.
Janine Junker, direttrice e giurista della sezione asmac di Berna, «Giornale asmac» 5/2022
Vorrei farmi assumere come medico in uno studio. Lo studio medico mi offre un contratto secondo il quale l’intero salario dipende dal giro d’affari. Il mio stipendio lordo dovrebbe essere il 45 percento del fatturato da me personalmente generato attraverso prestazioni mediche, considerando che la prestazione medica include l’importo totale Tarmed per ogni prestazione (PM e PT). È consentito?
In linea di principio, il Tribunale federale considera ammissibile un salario basato solo su provvigioni, con il quale si riceve cioè, come nel suo caso, il 45 percento del fatturato a titolo di salario. Tuttavia, tale giro d’affari deve essere sufficientemente ampio da consentirle di ricevere una rimunerazione adeguata. Ciò significa che, con una partecipazione del 45 percento, deve poter percepire un salario conforme alla sua formazione, alla sua esperienza e alle consuetudini settoriali. Affinché non ci siano successivamente spiacevoli sorprese, è quindi importante conoscere il fatturato precedente dello studio medico prima di firmare il contratto, in modo da poter valutare se sia effettivamente possibile ottenere una retribuzione adeguata. Altrettanto fondamentale è regolare contrattualmente la retribuzione in caso di malattia, per evitare successive controversie. La consuetudine prevede una retribuzione corrispondente alla media di quella percepita prima dell’impedimento al lavoro a causa della malattia, considerando che la variante più sicura è rappresentata da un’assicurazione dell’indennità giornaliera di malattia che preveda un salario chiaramente definito.
Claudia von Wartburg, giurista e direttrice di entrambe le sezioni asmac di Basilea, «Giornale asmac» 3/2021
Sono in quarantena per dieci giorni dopo aver incontrato venerdì scorso un amico che nel fine settimana è risultato positivo alla COVID-19. Mercoledì ho percepito i primi sintomi e ho fatto il test: anch’io sono positivo e devo quindi mettermi in isolamento. Ho comunque diritto al mio salario? Chi lo pagherà?
Se lei, in quanto lavoratore dipendente, è impossibilitato a svolgere l’attività per motivi correlati alla sua persona come la malattia, l’articolo 324a CO stabilisce per il datore di lavoro l’obbligo di pagamento continuato del salario per un certo periodo e a determinate condizioni.
Nella prassi, il datore di lavoro di solito stipula un’assicurazione per perdita di guadagno che copre l’80 percento del pagamento del salario. Le indennità giornaliere versate dall’assicuratore esentano il datore di lavoro dall’obbligo di pagamento del salario. Questi contratti possono prevedere un periodo di attesa. Nei casi di malattia di breve durata è quindi il datore di lavoro a pagare il salario durante tale periodo. Il datore di lavoro ha facoltà di pagarlo all’80 percento ed è ammesso un periodo di attesa da uno a tre giorni senza salario.
A volte invece il contratto prevede il pagamento dell’intero salario in caso di malattia. In questi casi, il datore di lavoro deve quindi accollarsi la differenza rispetto all’importo pagato dall’assicurazione. Per il settore pubblico valgono altre disposizioni, dato che il CO non trova applicazione. Le leggi statali sul personale prevedono generalmente il pagamento continuato dell’intero salario. Per quanto riguarda il coronavirus, tutte le persone che risultano positive al test sono considerate malate, anche se non mostrano alcun sintomo. Possono quindi usufruire dei vantaggi previsti dalle suddette disposizioni e sono pagate secondo quanto previsto dal contratto o dalla legge che è opportuno consultare in caso di dubbio. La situazione di quarantena è diversa in quanto la persona non è malata, ma deve rimanere a casa per motivi di tutela della salute e prevenzione della diffusione della malattia.
Nel caso del coronavirus, la nuova legge COVID-19 prevede il diritto a un’indennità per perdita di guadagno per tutte le persone che sono in quarantena e non possono permettersi di lavorare in home office. Ciò vale sia per i lavoratori dipendenti che per quelli autonomi assicurati presso l’AVS. Affinché tali norme siano applicabili, la quarantena deve essere stata ordinata dalle autorità, da un ufficio cantonale o da un medico. Un avviso nell’app SwissCovid non è sufficiente. Il diritto all’indennità per perdita di guadagno decorre dal primo giorno di quarantena e ha una durata massima di dieci giorni. Il diritto sussiste anche per un genitore il cui figlio sia in quarantena. L’indennità viene pagata dalle casse di compensazione AVS. L’indennità ammonta all’80 percento del reddito AVS medio prima dell’insorgenza del diritto, ma per i lavoratori dipendenti con un massimo di 196 franchi al giorno.
Nel suo caso, ha diritto a un’indennità per perdita di guadagno per i primi giorni di quarantena. Il diritto all’indennità per perdita di guadagno viene invece meno a decorrere dal momento del risultato positivo del test e dall’inizio del suo periodo di isolamento. A partire da quel momento il suo caso è considerato esclusivamente come caso di malattia. Poiché l’indennità viene pagata attraverso il datore di lavoro, il dipendente non deve fare nulla per ricevere il suo salario. È semplicemente tenuto a presentare un certificato medico o di quarantena. È comunque utile conoscere queste regole per capire e poter controllare la validità di qualsiasi riduzione dello stipendio. Per poter ricevere l’indennità per perdita di guadagno, un medico indipendente dovrà presentare la domanda direttamente alla sua cassa di compensazione. L’ammontare dell’indennità verrà calcolato sulla base del reddito annuale, che verrà convertito nell’ultima retribuzione giornaliera utilizzata per calcolare i suoi contributi AVS.
Sono quindi coinvolti diversi meccanismi e uffici per compensare parzialmente la perdita di salario durante la pandemia. Le disposizioni in materia di diritto del lavoro hanno lo scopo di proteggere i diritti dei lavoratori, mentre le integrazioni introdotte attraverso le misure adottate e la legge COVID-19 sono destinate a ridurre gli oneri a carico dei datori di lavoro e dei lavoratori indipendenti.
Véronique Aeby, avvocato della sezione asmac di Friburgo, «Giornale asmac» 2/2021
Lavoro come medico assistente con un grado di occupazione dell’80 percento. Secondo il mio contratto ho diritto a un aumento annuale del salario. Dopo 12 mesi di attività ho chiesto un aumento salariale al mio datore di lavoro. Stranamente, l’aumento mi è stato negato con la motivazione che, considerando il mio grado di occupazione, dovevo aver lavorato per almeno 15 mesi per avere diritto all’aumento salariale (15 mesi all’80 percento = 12 mesi al 100 percento). È corretto?
L’ammontare del salario può essere stabilito per legge oppure da un contratto di lavoro collettivo o individuale. Lo stesso vale per le condizioni per ottenere un aumento del salario, che non è comunque obbligatorio. L’aumento salariale può dipendere ad esempio dal numero di anni di servizio. In tal caso esso mira a premiare la fedeltà o l’esperienza del lavoratore.
Si pone quindi effettivamente la domanda se il grado di occupazione abbia o meno un influsso sul diritto a un aumento del salario. Sono possibili diverse soluzioni, in base all’obiettivo perseguito con l’aumento salariale:
- L’anno di servizio viene calcolato indipendentemente dal grado di occupazione. Un lavoratore con un grado di occupazione dell’80 percento ha quindi diritto all’aumento del salario a partire da una durata del rapporto di lavoro di 12 mesi.
- L’anno di servizio viene calcolato in funzione del grado di occupazione. Un lavoratore con un grado di occupazione dell’80 percento dovrà quindi lavorare per 15 mesi (15 mesi all’80 percento = 12 mesi al 100 percento) per avere diritto all’aumento salariale.
- Una soluzione di compromesso consisterebbe nel definire una soglia al di sopra della quale l’anno di servizio viene calcolato indipendentemente dal grado di occupazione (e al di sotto della quale l’anno di servizio viene calcolato in funzione del grado di occupazione). Un datore di lavoro potrà fissare come soglia, ad esempio, un grado di occupazione del 50 percento. Quindi, per avere diritto all’aumento salariale, un lavoratore con un grado di occupazione del 40 percento dovrà lavorare per 17 mesi (17 mesi al 40 percento = 12 mesi al 100 percento), mentre un lavoratore con un grado di occupazione dell’80 percento dovrà lavorare solo 12 mesi.
Come sopra accennato, sono i documenti contrattuali a stabilire quale variante deve essere applicata. Accade però che i documenti contrattuali si limitino a menzionare un aumento annuale del salario, senza precisare se il grado di occupazione abbia o meno un influsso sulla registrazione degli anni di servizio. In tal caso bisogna quindi chiedersi quale sia l’obiettivo perseguito con l’aumento salariale. Se l’obiettivo del datore di lavoro è solo legare a sé il proprio dipendente, premierà la sua età di servizio. In tal caso l’aumento verrà concesso indipendentemente dal grado di occupazione. Se invece il datore di lavoro desidera premiare solo l’esperienza, prenderà in considerazione le prestazioni lavorative effettivamente svolte, concedendo quindi l’aumento salariale in funzione del grado di occupazione. La soluzione di compromesso presentata sopra consente di tenere in considerazione entrambe le componenti.
Dato che il grado di occupazione influenza già l’ammontare del salario, esso deve essere preso in considerazione in fase di calcolo degli anni di servizio solo se ciò è espressamente previsto o se i documenti contrattuali stabiliscono che l’aumento del salario ha l’obiettivo di premiare le prestazioni di lavoro effettivamente svolte.
Joël Vuilleumier, giurista della sezione asmac di Neuchâtel, «Giornale asmac» 6/2020
Due soci si informano per sapere se possono far correggere il loro attestato di lavoro. Uno dei soci vorrebbe che le lunghe assenze per malattia, dovute a un periodo di burnout, non venissero citate nell’attestato. L’altro socio invece desidera che una malattia somatica acuta, che durante il rapporto di lavoro ha richiesto addirittura un intervento e aveva avuto conseguenze a livello di prestazioni, venga esplicitamente menzionata nell’attestato.
La legge non si esprime riguardo alle formulazioni contenute in un attestato di lavoro, il che causa frequentemente insicurezza nei datori di lavoro. I principi di base sono stati sviluppati esclusivamente sulla base della giurisprudenza. L’attestato di lavoro deve essere veritiero e benevolo anche se, contrariamente alla prassi generalmente prevalente, la verità dovrebbe avere la priorità. Ciò vale anche per la menzione di una malattia che, secondo la dottrina e la giurisprudenza, può tuttavia essere inclusa in un attestato di lavoro solo se
- ha avuto un notevole influsso sulle prestazioni o il comportamento del collaboratore o della collaboratrice;
- ha messo in dubbio l’idoneità all’adempimento delle precedenti mansioni e pertanto ha rappresentato un motivo oggettivo per la risoluzione del rapporto di lavoro;
- il periodo della malattia ha avuto un peso notevole in rapporto alla durata complessiva del contratto, motivo per il quale non menzionarla potrebbe dare un’impressione sbagliata riguardo all’esperienza professionale acquisita.
Nella prassi, la decisione non è sempre palese. Determinante è sempre la considerazione delle circostanze complessive nel singolo caso ed è così anche per quanto concerne le due richieste.
Nel primo caso – quello del burnout – il lavoratore, su 36 mesi di assunzione, è mancato per un totale di 12 mesi per malattia e 3 mesi per l’esonero, dati che la giurisprudenza non ritiene ancora «notevoli» per quanto concerne il rapporto tra assenze e durata del rapporto di lavoro. Dato che il lavoratore ha diagnosticato la propria malattia personalmente, iniziando di conseguenza una terapia, la malattia non ha influenzato né le sue prestazioni né il suo comportamento. Visto inoltre che il datore di lavoro non ha disdetto il rapporto di lavoro per malattia e che alla fine è stata concordata una risoluzione del rapporto di lavoro su iniziativa del lavoratore, la menzione delle lunghe assenze per malattia nell’attestato di lavoro non è consentita, motivo per il quale il lavoratore può far valere con successo il suo diritto alla correzione.
Nel secondo caso – malattia somatica acuta – si è arrivati a un intervento chirurgico nel corso del periodo di assunzione di due anni. La malattia ha avuto un effetto dimostrabile sul rendimento della lavoratrice. Tuttavia le sue prestazioni non hanno soddisfatto le aspettative del datore di lavoro nemmeno dopo l’intervento, motivo per il quale non è stato possibile spiegare le prestazioni insufficienti semplicemente con la malattia somatica acuta, nel frattempo risolta, e alla fine si è arrivati alla disdetta del rapporto di lavoro. Quindi il datore di lavoro si è comportato correttamente non menzionando la malattia nell’attestato di lavoro. La lavoratrice era tuttavia dell’opinione che la malattia dovesse essere menzionata poiché la malattia aveva contribuito in maniera determinante alla riduzione delle sue prestazioni e poteva quindi giustificare il licenziamento della lavoratrice da parte del datore di lavoro.
Se la lavoratrice desidera esplicitamente che la malattia sia menzionata, ciò non comporterà alcuna controversia giuridica. Il datore di lavoro provvederà infatti senza discussioni a correggere l’attestato di lavoro come richiesto. Poiché però a causare il licenziamento è stata la non idoneità al posto, cioè il fatto che le prestazioni fossero in generale insufficienti, la menzione della malattia non avrebbe migliorato la valutazione complessiva contenuta nell’attestato di lavoro. C’è addirittura un’elevata probabilità che, a causa della menzione della malattia nell’attestato di lavoro, la persona non venga nemmeno invitata a un colloquio di presentazione. Molti responsabili del personale e dirigenti infatti collegano la malattia al rischio di potenziali assenze e i curriculum dei candidati con malattie rivelate, di solito finiscono nella pila dei rifiuti senza nemmeno avere l’opportunità di presentarsi. Un licenziamento invece può capitare a chiunque ad es. se non c’è un buon «feeling» tra lavoratore e superiore. Se gli altri attestati di lavoro presenti nel dossier sono buoni, spesso si resta in gara nonostante il licenziamento.
Se non si è soddisfatti del contenuto di un attestato di lavoro e se esso non corrisponde ai fatti e alle precedenti valutazioni, è possibile richiederne la modifica rivolgendosi al tribunale. Il termine di prescrizione per il diritto all’attestato è di 10 anni a decorrere dalla data di cessazione del rapporto di lavoro. Tuttavia, è opportuno cercare prima di ottenere la correzione in via stragiudiziale rivolgendosi al datore di lavoro e sottoponendogli una propria proposta. Nella maggior parte dei casi infatti la correzione dell’attestato di lavoro può essere ottenuta senza ricorrere ai tribunali. In caso di incertezza o se vi serve aiuto per la formulazione, saremo lieti di assistervi.
Susanne Hasse, giurista di sezione asmac Zurigo/Sciaffusa, «Giornale asmac» 4/2020
Sono stato licenziato e, a seguito del licenziamento, il mio datore di lavoro mi ha sospeso dal servizio. Il mio datore di lavoro può ordinarmi di compensare durante il periodo di sospensione le mie ferie e i miei crediti relativi a lavoro straordinario e ore supplementari?
Per spazzare via eventuali ambiguità terminologiche, è necessario prima di tutto spiegare la differenza tra lavoro straordinario e ore supplementari. Vengono definite lavoro straordinario le ore di lavoro prestate in eccesso rispetto al normale orario di lavoro. Sono invece considerate ore supplementari quelle che eccedono l’orario di lavoro massimo consentito secondo la legge sul lavoro. Per i medici assistenti si tratta di 50 ore settimanali; per i capiclinica vale in linea di principio lo stesso concetto, a meno che il relativo datore di lavoro pubblico non sia eccezionalmente escluso dal campo di applicazione della legge sul lavoro.[1]
Per quanto concerne la compensazione delle ferie, sussiste in linea di principio il divieto di sostituire le ferie con prestazioni in denaro. Tale divieto ha effetti anche oltre il rapporto di lavoro in essere e vale anche dopo la sua cessazione. Tuttavia – come quasi sempre nel campo del diritto – ci sono delle eccezioni. Di norma infatti sono determinanti il rapporto tra la durata della sospensione dal servizio e il diritto alle ferie e il modo in cui il lavoratore ha utilizzato il periodo di sospensione. In generale, vale il principio che più è lungo il periodo di sospensione e maggiore è il numero di giorni di ferie che si possono considerare goduti. Tale eccezione è correlata alla circostanza che il lavoratore deve dedicare del tempo alla ricerca di un nuovo posto di lavoro. Alcuni tribunali applicano la regola generale secondo la quale un terzo dei giorni di sospensione dal servizio possono essere conteggiati come giorni di ferie goduti, con l’obbligo però di considerare sempre le circostanze concrete del singolo caso. Questo ci riporta alla seconda eccezione: se il lavoratore ha dovuto utilizzare l’intero periodo di sospensione dal servizio per la ricerca di un posto di lavoro e non ha pertanto avuto la possibilità di andare in vacanza per riposarsi, non deve farsi conteggiare tutto il periodo di ferie. Viceversa, il lavoratore che durante il periodo di sospensione dal servizio prende effettivamente delle ferie deve farsi conteggiare come ferie godute l’intero periodo e non solo il periodo più breve secondo la regola generale sopra esposta.
Per quanto concerne la compensazione di lavoro straordinario durante il periodo di sospensione dal servizio, va osservato quanto segue. Per legge (articolo 321c cpv. 2 CO, Codice delle obbligazioni), la compensazione di lavoro straordinario con tempo libero è possibile solo con il consenso del lavoratore. Il capoverso 3 dell’articolo 321c CO stabilisce poi che, se il lavoro straordinario non è compensato mediante tempo libero e se mediante accordo scritto, contratto normale o contratto collettivo non è stato convenuto o disposto altrimenti, il datore di lavoro deve pagare il salario per il lavoro straordinario. L’importo dovuto ammonta al salario normale con un supplemento di almeno il 25 percento. Secondo la giurisprudenza del Tribunale federale, la compensazione del lavoro straordinario con tempo libero può avvenire solo con il consenso del lavoratore anche durante il periodo di sospensione dal servizio. Il datore di lavoro non può pertanto ordinare unilateralmente la compensazione del lavoro straordinario durante il periodo di sospensione dal servizio.
Oltre alla discussione concernente la compensazione del lavoro straordinario, è opportuno spiegare la situazione giuridica per quanto riguarda la compensazione delle ore supplementari. Rilevante per le ore supplementari è l’articolo 13 LL, il cui capoverso 1 prevede per le ore supplementari – analogamente a quanto previsto per il lavoro straordinario – un supplemento salariale di almeno il 25 percento. Il capoverso 2 dell’art. 13 LL prevede anche che il supplemento del 25 percento non sia dovuto se le ore supplementari vengono compensate con il consenso del lavoratore ed entro un periodo adeguato, mediante tempo libero di uguale durata. Come per il lavoro straordinario, anche nel caso delle ore supplementari per la compensazione è necessario il consenso del lavoratore. Ciò vale anche in caso di sospensione dal servizio.
Per prevenire nel miglior modo possibile controversie legali che costano tempo, nervi e soldi, dal punto di vista del lavoratore è consigliabile regolare in modo vincolante in un accordo sulla sospensione dal servizio con il rispettivo datore di lavoro le modalità di compensazione di lavoro straordinario, ore supplementari e diritto alle ferie. Ulteriore sicurezza è garantita dall’art. 341 cpv. 1 CO che prevede che il lavoratore per tutta la durata del rapporto di lavoro e nel mese successivo alla sua fine non può rinunciare ai crediti risultanti da disposizioni imperative della legge o di un contratto collettivo. Prima di firmare un accordo di questo tipo è pertanto consigliabile farlo verificare dal punto di vista giuridico, compito per il quale i giuristi di sezione sono naturalmente a disposizione.
Samuel Nadig, giurista di sezione e direttore della sezione asmac Grigioni, «Giornale asmac» 1/2020
[1] Da qualche tempo, la legge sul lavoro si applica anche ai medici assistenti, indipendentemente dal fatto che l’azienda sia o meno soggetta alla legge sul lavoro. Per i capiclinica, le norme in materia di orario di lavoro e riposo si applicano solo se l’azienda è soggetta alla legge sul lavoro. Di norma non è così se l’azienda fa direttamente parte di un’amministrazione cantonale.
Sono stata assunta come capoclinica per un periodo di un anno. Al termine, il mio contratto di lavoro è stato rinnovato per ulteriori tre anni, fino a fine giugno 2020. Oggi non sono più soddisfatta delle condizioni di lavoro. Anche per motivi privati (trasferimento in un altro comune) desidero lasciare questo posto di lavoro a decorrere dal 30 settembre 2019. Allora, al momento della firma del contratto di lavoro, non ho considerato che non prevede alcun termine di disdetta. Come devo procedere?
Il contratto che lei ha firmato è un contratto a tempo determinato valido fino al 30 giugno 2020. Ciò significa che il contratto, una volta scaduto il periodo di durata concordato, cessa di essere valido. Non è pertanto necessaria alcuna disdetta (vedi art. 334 cpv. 1 CO). Il contratto termina automaticamente alla scadenza.
Ciò che le parti, al momento dell’assunzione, spesso non considerano è che il contratto non può essere disdetto da nessuna delle parti prima della scadenza, a meno che il contratto stesso non lo preveda espressamente. Si applicano esclusivamente le condizioni per la disdetta straordinaria (rescissione con effetto immediato per gravi motivi). Lei quindi non può dare disdetta del contratto. Il contratto può essere risolto prima del tempo solo attraverso un accordo stipulato con il consenso di entrambe le parti.
Nel suo caso deve quindi contattare il datore di lavoro, informandolo della sua intenzione e cercando di ottenere il suo consenso. Tuttavia, dal punto di vista giuridico, il datore di lavoro non è tenuto ad accettare la sua richiesta. Quindi, dal momento che possono essere necessarie lunghe trattative, è raccomandabile affrontare per tempo la questione.
Determinati contratti a tempo determinato contengono una clausola per la risoluzione anticipata. Tale possibilità deve però essere espressamente indicata nel contratto, che deve stabilire anche i termini di disdetta applicabili. Si tratta dei cosiddetti contratti di lavoro con una durata massima. A volte la disdetta è possibile solo durante il primo anno e non dopo. È quindi importante analizzare attentamente il contenuto del contratto, dei regolamenti aziendali e delle disposizioni di legge applicabili (ad es. legge sul personale statale).
Va considerato un ulteriore aspetto negativo dei contratti di lavoro a tempo determinato: non si applicano le disposizioni in materia di disdetta in tempo inopportuno. Il contratto di lavoro termina quindi anche in caso di incapacità lavorativa o gravidanza, il che può rivelarsi discriminatorio soprattutto per le donne.
Nella prassi, le assunzioni a tempo determinato spesso vengono giustificate con il pretesto della formazione. Le relative conseguenze negative vengono spesso trascurate. Non dimentichi che la flessibilità risultante da un contratto di lavoro a tempo determinato è in genere vantaggiosa per il datore di lavoro.
Véronique Aeby e Pierre Mauron, avvocati della sezione asmac Friburgo, «Giornale asmac» 3/2019
Attualmente ho un contratto a tempo determinato (dal 1° novembre 2017 al 31 ottobre 2019). Ora ho trovato un nuovo posto presso un altro ospedale dove prenderei servizio il 1° novembre 2018. Posso accettare questa offerta?
In linea di principio, un contratto di lavoro a tempo determinato termina, senza disdetta, alla scadenza del periodo concordato. Giuridicamente, non è quindi possibile risolvere anticipatamente un contratto di questo tipo a meno che il contratto stesso non lo preveda o non vi sia il consenso di entrambe le parti.
Il mio attuale contratto non contiene alcuna clausola per la risoluzione anticipata e il mio datore di lavoro non vuole accettare una rescissione consensuale.
In casi eccezionali il contratto può essere risolto con effetto immediato per gravi motivi. Tali motivi sono, ad esempio, condizioni di lavoro che rendano impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro (violazione della personalità o mancato pagamento del salario).
Un nuovo orientamento o un nuovo perfezionamento professionale non sono considerati gravi motivi.
Le mie condizioni di lavoro sono difficili, ma conformi alla legge. Il mio salario è sempre stato pagato puntualmente.
In questo caso una risoluzione anticipata del contratto non è possibile.
E se decidessi di lasciare comunque il mio posto di lavoro il 31 ottobre 2018?
Se lei decidesse comunque, unilateralmente, di lasciare il posto di lavoro prima della scadenza del contratto, senza poter far valere alcun grave motivo, avrà l’obbligo di risarcire i danni subiti dal suo datore di lavoro a seguito dell’interruzione improvvisa del rapporto di lavoro.
A quanto possono ammontare tali danni?
Secondo la prassi e la legge (art. 337d CO), il datore di lavoro le può detrarre un quarto dell’ultimo salario mensile.
Tuttavia, se i danni effettivi sono superiori a tale importo forfettario, il datore di lavoro ha diritto al risarcimento dell’importo eccedente. Dovrà però provare i danni subiti e intentare un processo contro di lei (di norma entro 30 giorni dall’uscita). Se lei invece è dell’opinione che i danni siano inferiori all’importo forfettario trattenuto, dovrà fare causa al datore di lavoro per ottenere la resti-tuzione dell’importo trattenuto in eccesso.
I danni corrispondono ai costi che il datore di lavoro ha dovuto sostenere a causa della sua uscita. I costi degli annunci per la ricerca di un nuovo collaboratore non rientrano in tale importo, poiché il datore di lavoro li avrebbe dovuti sostenere comunque anche succes-sivamente. Al contrario, potrebbero venirle addebitati i costi aggiuntivi per le ore supplementari pagate al 125 percento che i suoi colleghi dovranno prestare a seguito della sua uscita.
Quindi prima informerà il suo datore di lavoro e più quest’ultimo sarà in grado di effettuare i passi necessari per ridurre al minimo i danni (ciò significa trovare un successore al fine di garantire una prosecuzione dell’attività senza inconvenienti).
Joël Vuilleumier, giurista della sezione asmac Neuchâtel, «Giornale asmac» 3/2018
Quando un attestato di lavoro si può considerare benevolo, chiaro e veritiero?
Dopo tre anni e mezzo di lavoro in uno studio, un medico ha ricevuto un attestato finale formulato nel modo seguente: «Purtroppo durante il rapporto di lavoro si sono verificati degli errori di trattamento». Sulla base di tali accuse, il medico è anche stato licenziato. Un anno prima aveva invece ricevuto un ottimo attestato intermedio. Le accuse non sono state motivate e il lavoratore contesta che vi siano stati errori di trattamento.
Sulla base dell’art. 330a cpv. 1 CO, tutti i lavoratori hanno diritto a un attestato che indichi la natura e la durata del rapporto di lavoro e si pronunci sulle prestazioni e sulla condotta del lavoratore. Dal punto di vista del contenuto, un attestato deve comprendere i seguenti elementi:
- dati personali del lavoratore;
- dati necessari affinché l’emittente possa essere identificato in modo univoco, oltre alla firma con valore giuridico e alla data di emissione;
- inizio e fine del rapporto di lavoro; elenco dettagliato delle principali funzioni svolte e delle attività che hanno caratterizzato il rapporto di lavoro con la relativa durata;
- valutazione significativa delle prestazioni e del comportamento.
Un attestato deve essere formulato secondo i seguenti principi:
- completezza;
- veridicità;
- proporzionalità;
- buona fede e
- benevolenza.
Un attestato deve promuovere l’avanzamento professionale del lavoratore, fornendo al contempo a un futuro datore di lavoro un quadro corrispondente al vero. Tali requisiti possono causare discussioni e un conflitto di interessi. Una costellazione che si è veri-ficata in questo caso. Il datore di lavoro insiste nel voler menzionare errori di trattamento che invece il lavoratore contesta. Anche se gli errori di trattamento si fossero effettivamente verificati, sono dell’opinione che, secondo il principio della benevolenza, non dovrebbero essere menzionati, a meno che non siano stati di natura estremamente grave. L’attestato dovrebbe fornire un quadro corretto dell’intero rapporto di lavoro e non basarsi solo sulla conclusione spesso in disaccordo. Non si ha però alcun diritto a parole di ringraziamento e auguri.
In questo caso un evento secondario è costituito dalla revoca dell’attestato intermedio precedentemente emesso. Nel corso del procedimento, il datore di lavoro ha ritenuto che, dopo l’emissione dell’ottimo attestato intermedio, siano stati scoperti degli errori che si erano verificati prima del suo rilascio. Per questo ha preteso la restituzione dell’attestato intermedio. Un attestato di lavoro è un documento che, a mio parere, non può essere revocato. Il datore di lavoro l’ha rilasciato incondizionatamente e avrebbe dovuto accertare preventivamente il contenuto con (maggiore) diligenza.
La valutazione giudiziale del caso è ancora in corso. In linea di principio si raccomanda di esaminare accuratamente l’attestato di lavoro prima di firmarlo e, in caso di dubbio, di richiedere una consulenza legale.
Janine Junker, avvocatessa, direttrice della sezione asmac Berna, «Giornale asmac» 4/2018
Lavoro come medico assistente in un ospedale. Ora ho sentito che, dal 1° gennaio 2020, il termine di prescrizione per i danni alle persone è stato prolungato.
Questo cambiamento influenzerà il mio lavoro quotidiano?
In linea di principio, il nuovo termine di prescrizione si applica a tutti i medici, indipendentemente dal fatto che siano assunti o lavoratori indipendenti, medici assistenti o capiclinica. Se durante il trattamento il paziente subisce un danno, può intentare una causa civile contro il medico curante. Per questo devono essere conservate le cartelle cliniche. Ora però, il periodo di conservazione è appunto stato esteso a vent’anni invece dei dieci precedentemente previsti.
In quanto medico assunto lei, in linea di principio, può partire dal presupposto che la conservazione della cartella clinica e la verifica del termine vengano effettuate dal datore di lavoro. Fondamentale è che tutti i medici curanti siano consci del fatto che, in caso di processo, la cartella clinica è di grande importanza e per questo deve essere sempre aggiornata con la massima cura. Tramite la cartella clinica deve essere possibile ricostruire il trattamento.
Privato vs. pubblico
Per quanto concerne il rapporto di cura di diritto privato, a seguito delle modifiche al termine di prescrizione entrate in vigore il 1° gennaio 2020, il termine di prescrizione assoluto per tutte le lesioni e i decessi passa da 10 a 20 anni. Le norme per i rapporti di cura di diritto pubblico continueranno invece a orientarsi secondo il diritto pubblico cantonale. Al momento attuale, i cantoni non sono ancora in grado di dire se allungheranno a 20 anni i termini di prescrizione per le cartelle cliniche regolati a livello cantonale [1]. Pertanto si consiglia di conservare le cartelle cliniche per 20 anni, indipendentemente dalle disposizioni cantonali.
Per i medici, il nuovo termine di prescrizione per le cause civili ha conseguenze pratiche: nel caso a un medico venga imputata una responsabilità, la cartella clinica rappresenta un elemento di prova determinante. Essa consente infatti di ricostruire tutte le fasi del trattamento, determinando se il paziente ha dato tempestivamente il suo consenso e se ha ricevuto informazioni esaurienti. Affinché tali elementi di prova possano essere presentati in un eventuale procedimento giudiziario, devono essere conservati per l’intero periodo di prescrizione.
Copertura successiva da parte dell’assicurazione di responsabilità civile
Il prolungamento del termine di prescrizione ha un ulteriore significato a livello pratico in relazione alla copertura successiva da parte dell’assicurazione di responsabilità civile. Oggi tale copertura ha di norma unadurata di 10 anni. In futuro dovrà essere garantita una copertura successiva di 20 anni, il che richiede una modifica della polizza.
Termini transitori
Se la nuova legislazione prevede un termine più lungo rispetto a quella previgente, si applica la nuova legislazione, ma solo se al momento dell’entrata in vigore, cioè al 1° gennaio 2020, la prescrizione secondo il diritto previgente non è ancora subentrata. Cambia tuttavia solo la durata e non il momento in cui il termine ha iniziato a decorrere. Se la nuova legislazione prevede un termine più breve, si continua ad applicare quella previgente. Quindi, ad esempio, se per una richiesta di risarcimento per danni alla persona derivanti da trattamento non autorizzato i 10 anni del termine di prescrizione assoluto al 1° gennaio 2020 non sono ancora scaduti, tale termine si estende a 20 anni, considerando che il periodo già trascorso viene detratto da tale durata.
Consegna della cartella clinica – diritti e limitazioni
In relazione ai nuovi termini di prescrizione si pone anche la questione dell’accesso alla cartella clinica. Prima di tutto, va sottolineato che il diritto di informazione del paziente di accedere alla documentazione medica che lo riguarda e il diritto di ricevere una copia di tale documentazione sono giuridicamente vincolanti. Tuttavia, esistono sostanzialmente due limitazioni:
La prima limitazione riguarda la divulgazione di dati sanitari a terzi, nonché gli appunti personali. Tale parte «soggettiva» della cartella clinica riguarda i «riferimenti e i promemoria» pensati solo per il medico e che non hanno effetto su diagnosi, terapia o trattamento (Dominique MANAÏ, L’acces au dossier médical, nel Giornale: Cahiers genevois et romands de sécurité sociale n. 28/2002, p. 74 segg.; Tomas POLEDNA/Brigitte BERGER, Öffentliches Gesundheitsrecht, Berna 2002, p. 136).
La seconda limitazione riguarda le cosiddette controindicazioni terapeutiche («Solo nel caso l’informazione possa essere suscettibile di portare grave pregiudizio allo stato psicofisico del paziente o compromettere l’esito della cura, essa deve essere data ad una persona prossima» (art. 6 cpv. 1 Legge sulla promozione della salute e il coordinamento sanitario Ticino del 18 aprile 1989).
Lorenza Pedrazzini Ghisla, giurista della sezione asmac Ticino, «Giornale asmac» 2/2020
[1] Ursina Pally Hofmann, Neues Verjährungsrecht, Bollettino dei medici svizzeri, p. 1826.
L’obbligo di segnalazione mette a rischio il segreto professionale medico
Con la recente revisione della legge sanitaria del Canton Ticino, gli operatori sanitari sono tenuti a segnalare i reati dei propri pazienti. Ciò ha innescato un acceso dibattito in Parlamento. Attualmente, l’obbligo di segnalazione è oggetto di discussione a livello svizzero, ad esempio con riferimento al pilota suicida dell’aereo Germanwings o all’uccisione di un terapeuta sociale a Ginevra, e solleva questioni difficili e complesse. Si tratta infatti di soppesare due interessi contrastanti: da un lato l’interesse a chiarire i reati e, dall’altro, quello a preservare l’obbligo del segreto che costituisce il fondamento del rapporto terapeutico. Concretamente, la questione è se abbia la precedenza la constatazione giudiziaria di un reato o la tutela del rapporto di fiducia tra medico e paziente. Nel secondo caso, l’obiettivo è evitare che il paziente, indipendentemente dal fatto che sia vittima o autore, interrompa il trattamento in corso, ad es. presso uno psichiatra, per paura che il suo medico sporga denuncia.
La Camera medica ticinese si è, a ragione, espressa ripetutamente contro una rigorosa applicazione dell’obbligo di segnalazione per i gruppi professionali soggetti all’obbligo del segreto come medici, odontoiatri, chiropratici, farmacisti, ostetriche e psicologi. Anche il Consiglio federale, nel suo messaggio concernente la modifica del Codice civile svizzero (Protezione dei minorenni, 15.033 del 15 aprile 2015 (FF 2015 3431)), si è pronunciato a favore dell’esclusione dall’obbligo di segnalazione delle persone soggette all’obbligo del segreto professionale. «Un obbligo di segnalazione può risultare controproducente perché una segnalazione in questi casi potrebbe mettere inutilmente a rischio o distruggere il rapporto di fiducia con il minorenne in questione o con terzi e non essere pertanto nell’interesse del minore. La segnalazione deve avvenire solo se la persona depositaria del segreto, previa ponderazione degli interessi da tutelare, arriva alla conclusione che essa sia nell’interesse del minore.»
Il Parlamento ticinese invece, ha continuato a optare per la repressione, confermando l’obbligo per gli operatori sanitari di segnalare alle autorità inquirenti «ogni caso di malattia, lesioni o morte la cui causa certa o presunta sia un reato» (art. 68 cpv. 2). In tal modo la soluzione ticinese sospende di fatto il segreto professionale, obbligando il medico a denunciare immediatamente i reati. Viene meno la possibilità di valutare la situazione e gli interessi di tutte le parti coinvolte. È pertanto lecito chiedersi se l’obbligo di denuncia ticinese non violi il diritto federale che tutela il segreto professionale a vari livelli: protezione della sfera privata (art. 13 cpv. 1 della Costituzione federale); obblighi professionali di chi esercita una professione medica universitaria (art. 40f LPMed); obblighi professionali di chi esercita una professione sanitaria (art. 16f LPSan); punibilità delle violazioni del segreto professionale (art. 321 cpv. 1 CP).
Giuridicamente, la questione non è priva di controversie. Il Tribunale federale, ad esempio, nella sua sentenza 1B_96/2013 non ha dato una risposta alla domanda se i Cantoni abbiano o meno il potere di obbligare i medici a segnalare alle autorità inquirenti i casi di sospetti reati.
Lorenza Pedrazzini Ghisla, giurista della sezione asmac Ticino, «Giornale asmac» 2/2018
Una clinica privata assume un medico assistente affinché possa svolgere il perfezionamento professionale per ottenere la formazione approfondita in oftalmochirurgia. Il suo contratto di lavoro stabilisce che il costo stimato di tale perfezionamento professionale ammonta per la clinica privata a CHF 500’000. Sulla base di tali costi, il contratto di lavoro contiene una clausola che stabilisce che il medico, una volta ottenuta la formazione approfondita, è tenuto a continuare a lavorare presso la clinica privata, come specialista con un grado di occupazione del 100 percento, per un periodo di quattro anni. Il contratto di lavoro contiene inoltre una clausola in base alla quale il medico è tenuto a rimborsare i costi di questo perfezionamento professionale per un importo di CHF 300’000 qualora interrompa il perfezionamento professionale o non consegua la formazione approfondita. In caso di risoluzione anticipata del rapporto di lavoro per dimissioni o licenziamento in tronco per gravi motivi, il contratto di lavoro prevede un obbligo di rimborso dei costi di perfezionamento professionale per un importo di CHF 300’000 nel primo anno, di CHF 225’000 nel secondo anno, di CHF 150’000 nel terzo anno e di CHF 75’000 nel quarto anno. Una clausola di questo tipo è consentita? Qualora, dopo il conseguimento della formazione approfondita in oftalmochirurgia, non voglia continuare a lavorare per altri quattro anni presso la clinica privata in questione, il medico può disdire il contratto senza dover rimborsare la somma di CHF 300’000?
La legge prevede che il datore di lavoro debba rimborsare al lavoratore tutte le spese rese necessarie dall’esecuzione del lavoro. Precisa inoltre che è nullo ogni accordo, per il quale il lavoratore abbia a sopportare interamente o in parte le spese necessarie (art. 327a cpv. 3 CO).
In generale, il lavoratore deve sostenere personalmente i costi di una formazione che non sia direttamente correlata a un determinato datore di lavoro o a un determinato prodotto. Vi rientrano i costi per corsi di formazione che procurano al lavoratore un vantaggio duraturo sul mercato del lavoro (ad es. i costi di un perfezionamento professionale universitario all’estero per il conseguimento di un titolo di specializzazione). Se il datore di lavoro si assume i costi di un perfezionamento professionale di questo tipo, che in linea di principio sono a carico del lavoratore, può stipulare con quest’ultimo un accordo con il quale il lavoratore si impegna a rimborsare interamente o parzialmente i costi in caso di dimissioni prima di un determinato termine.
Nel presente caso la situazione è diversa, poiché il medico assistente è assunto presso la clinica privata che ne garantisce il perfezionamento professionale. Essa non richiede però il rimborso di costi effettivi, anticipati al medico assistente per finanziare un perfezionamento professionale all’esterno della clinica con benefici per il suo futuro professionale. La clinica chiede il rimborso dei costi presunti che le deriverebbero dal perfezionamento professionale svolto nei suoi locali.
Se una clinica assume un medico assistente per scopi di perfezionamento professionale, l’assistenza e il perfezionamento professionale rientrano tra gli obblighi del datore di lavoro, come in un contratto di apprendistato. Di conseguenza, il primario o il medico responsabile del perfezionamento professionale deve garantire il rispetto del programma di perfezionamento professionale prescritto. L’investimento del datore di lavoro nel perfezionamento professionale viene inoltre già preso in considerazione al momento della definizione di un salario inferiore rispetto a quello di un medico specialista. Per questo i costi che il datore di lavoro presume di dover sostenere per tale perfezionamento professionale interno non possono essere equiparati ai costi effettivamente addebitati da un terzo per il perfezionamento professionale del lavoratore al di fuori dell’azienda.
Sulla base dei fatti e anche se fino ad oggi il Tribunale federale non si è mai espresso sulla questione, si può supporre che l’obbligo di rimborso delle presunte spese di perfezionamento professionale sostenute internamente sia illegittimo. Quindi se il medico, dopo il conseguimento della formazione approfondita, dà disdetta del contratto di lavoro rispettando il termine di preavviso previsto dal contratto stesso, a mio parere il datore di lavoro non può pretendere il pagamento dell’importo di CHF 300’000 previsto dal contratto.
Christian Bruchez, giurista della sezione asmac Ginevra, «Giornale asmac» 5/2018
La rappresentante degli assistenti di un ospedale zurighese desidera sapere dall’ASMAC Zurigo se i medici possono scioperare. Secondo quanto afferma, hanno notoriamente carenze di personale da quella che sembra ormai un’eternità e per questo motivo non sarebbe possibile rispettare gli orari di lavoro previsti dalla legge. Non si intravede alcun segnale di cambiamento della situazione e ora, a suo dire, ne hanno abbastanza.
Il diritto di sciopero è, a determinate condizioni, un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione federale (art. 28 CF). Secondo la giurisprudenza del Tribunale federale, lo sciopero è «il rifiuto collettivo di fornire la prestazione lavorativa dovuta allo scopo di far valere, nei confronti di uno o più datori di lavoro, la richiesta di determinate condizioni di lavoro». Uno sciopero per il raggiungimento di obiettivi politici, ad es. la modifica della legge sul lavoro, sarebbe invece illegittimo. L’articolo della Costituzione fa inoltre riferimento al fatto che il dovere di preservare la pace del lavoro o di svolgere negoziati di conciliazione deve avere la precedenza. Ciò vale in particolare se è stato stipulato un contratto collettivo di lavoro in base al quale sussiste l’obbligo di mantenere la pace del lavoro secondo quanto previsto dall’art. 357 CO (CCL per i medici assistenti che, nel Canton Zurigo, vale ancora per i quattro ospedali cantonali) o se le parti hanno concordato di svolgere una procedura di conciliazione.
Lo sciopero come forma di lotta (come lo sciopero delle matite a Zurigo nel 1998) è pertanto consentito solo come ultima ratio se il datore di lavoro non accetta di trattare o se le trattative non raggiungono alcun risultato. Lo sciopero infatti rischia di arrecare danni economici al datore di lavoro.
La Costituzione federale prevede la possibilità di vietare per legge completamente lo sciopero a determinate categorie di persone. La Legge sul personale federale, ad esempio, cita la possibilità di limitare o sopprimere il diritto di scioperare se la sicurezza dello Stato, la tutela degli interessi negli affari esteri o la garanzia dell’approvvigionamento del Paese in beni e servizi vitali lo esigono. La legge sul personale del Canton Zurigo e l’ordinanza in materia di diritto del personale della Città di Zurigo invece non si esprimono riguardo al diritto di sciopero. Tuttavia, a Zurigo si ritiene che, sulla base dell’obbligo di fedeltà fissato nelle leggi sul personale, sia consentito proibire o limitare il diritto di sciopero per determinate categorie di personale, ad esempio nel campo delle cure ospedaliere assolutamente necessarie.
In altre parole: nella misura in cui il servizio di emergenza di un ospedale sia garantito e i medici assistenti non siano soggetti all’obbligo di mantenere la pace del lavoro previsto dal CCL, essi hanno facoltà di scioperare collettivamente organizzati per ottenere condizioni di lavoro conformi alla legge. Possono farlo tuttavia solo se con il datore di lavoro sono già state avviate trattative che non hanno portato ad alcun risultato. Dato che in genere i medici assistenti, per motivi di carriera, non vogliono esporsi per svolgere trattative di questo tipo, è necessario attivare la sezione asmac di Zurigo, la quale assumerà la rappresentanza dei lavoratori nelle trattative con il datore di lavoro, attivando se necessario l’Ispettorato del lavoro del Canton Zurigo. In tale contesto, come misura da adottare rapidamente, può essere sicuramente utile anche analizzare i processi di pianificazione dei turni con l’aiuto dell’apposito servizio dell’associazione mantello asmac e considerare come sia possibile quantomeno ottimizzare la pianificazione utilizzando il personale esistente.
Susanne Hasse, avvocato SHlegal, direttrice della sezione asmac Zurigo, «Giornale asmac» 6/2018
Una coppia con due figli lavora presso l’ospedale X. Entrambi i coniugi sono assunti come capiclinica. I bambini vengono accuditi in una struttura di custodia collettiva diurna che però, durante le vacanze estive, resta chiusa per due settimane. Per questo il marito ha richiesto una settimana di ferie già tre mesi prima delle vacanze estive per avere modo, durante il periodo di chiusura della struttura, di dedicarsi alla cura dei bambini. La moglie ha chiesto le ferie per la seconda settimana. Al momento della richiesta, entrambi i genitori hanno fatto presente la necessità di accudire i figli. Tuttavia al marito le ferie non sono state concesse e gli sono stati assegnati turni di servizio proprio in quella settimana. È lecito?
In linea di principio, la legge sul lavoro prevede determinati privilegi speciali per i dipendenti con obblighi familiari. Ai sensi dell’art 36 della legge sul lavoro (LL) il datore di lavoro, determinando le ore del lavoro e del riposo, deve prestare particolare riguardo ai lavoratori con responsabilità familiari. Sono considerate responsabilità familiari l’educazione dei figli fino all’età di 15 anni e l’assistenza di congiunti o di persone prossime che necessitano di cure. In altre parole: il datore di lavoro deve garantire turni di lavoro regolari e pianificabili, considerando però che tale riguardo si applica solo nella misura in cui la situazione aziendale lo consenta.
Nel presente caso, la giustificata richiesta di ferie può essere respinta solo se il datore di lavoro è in grado di motivare oggettivamente l’impossibilità, dal punto di vista dell’operatività aziendale, di concedere al marito la suddetta settimana libera. Considerando che la richiesta è stata presentata con mesi di anticipo e che il lavoratore ha motivato in modo plausibile la necessità di ottenere le ferie, il rifiuto non sembra essere giustificato dal momento che tutti i lavoratori hanno diritto alle ferie.
Secondo l’art. 36 LL, un lavoratore può anche rifiutarsi di prestare lavoro straordinario (più di 50 ore settimanali), qualora ciò lo costringa a trascurare i suoi obblighi familiari. Al contrario, il lavoratore è tenuto a prestare ore supplementari nella misura in cui ciò possa essere ragionevolmente e in buona fede preteso.
La legge prevede addirittura che un lavoratore con obblighi familiari possa pretendere una pausa meridiana di almeno un’ora e mezzo per cucinare per la famiglia a casa. Tuttavia, questo è uno scenario che ha meno probabilità di realizzarsi in un ambiente ospedaliero, soprattutto perché tale pausa meridiana non sarebbe retribuita.
Claudia von Wartburg, giurista delle due sezione asmac Basilea, «Giornale asmac» 2/2019
Nell’autunno 2017 ho iniziato a lavorare in un ospedale come medico assistente con un grado di occupazione del 100 percento. A inizio gennaio 2018 sono diventata madre e ho preso un congedo di maternità di 16 settimane come previsto dal contratto collettivo di lavoro. Già prima del parto, avevo concordato con il mio datore di lavoro che, una volta terminato il congedo di maternità, avrei ridotto il mio grado di occupazione al 60 percento. Fino alla fine del congedo di maternità, il mio saldo ferie ammontava complessivamente a tre settimane, derivanti ancora dal periodo con grado di occupazione al 100 percento. Il mio datore di lavoro mi ha informato che anche queste tre settimane vengono conteggiate come tre settimane anche con il grado di occupazione al 60 percento. Ciò comporta tuttavia che il mio salario durante le ferie venga ridotto di conseguenza. Il modo di procedere del mio datore di lavoro è corretto?
Per poter rispondere a questa domanda è necessario chiarire prima se si tratta di un rapporto di lavoro di diritto pubblico o privato.
Se la lavoratrice ha un rapporto di lavoro di diritto pubblico, è necessario accertare se il diritto cantonale del personale contiene una regolamentazione che risponda alla domanda su come debbano essere rimunerate le ferie maturate prima di una modifica del grado di occupazione e che vengono godute solo dopo la modifica del contratto di lavoro.
Se non c’è nessuna regolamentazione, si può fare riferimento alla prassi sviluppata dalla Commissione federale di ricorso in materia di personale. In linea di principio, il diritto alle ferie sussiste anche se il lavoratore cambia grado di occupazione nel corso di un anno civile. Tale principio non è contestabile, ma bisogna osservare che il diritto alle ferie non comprende solo il diritto al riposo, ma anche quello alla retribuzione. Tre settimane di ferie in un rapporto di lavoro a tempo pieno vengono sempre rimunerate al 100 percento. Se poi il grado di occupazione viene ridotto al 60 percento, il saldo ferie esistente resta invariato (3 settimane di ferie sono sempre tre settimane di ferie anche con un grado di occupazione del 60 percento), tuttavia le ferie vengono retribuite solo al 60 percento. La perdita finanziaria ammonta quindi al 40 percento. In tal caso, per evitare questa disparità di trattamento, è necessario effettuare una compensazione finanziaria. Un lavoratore che, per motivi oggettivi o per obblighi di servizio, non aveva potuto godere delle ferie maturate prima della modifica del grado di occupazione, ha pertanto diritto a un pagamento compensativo ammontante alla differenza persa.
Lo stesso vale nell’ambito del diritto privato in assenza di un relativo fondamento giuridico. Secondo la dottrina prevalente, in situazioni di questo tipo una regolamentazione equa sarebbe che, in caso di riduzione del grado di occupazione, il salario venisse pagato secondo il grado di occupazione precedente, anche se le ferie maturate precedentemente sono state godute dopo. Nel caso inverso di aumento del grado di occupazione, bisognerebbe invece tollerare che il lavoratore, in caso di godimento successivo delle ferie riceva soltanto il salario previsto secondo il grado di occupazione precedente.
Il datore di lavoro dovrebbe consigliare all’interessato di usufruire delle ferie maturate pro rata temporis nell’ambito del grado di occupazione superiore prima che il contratto venga modificato. Qualora il lavoratore non sia in grado di farlo per motivi aziendali o per altri motivi oggettivi, il datore di lavoro in presenza di un saldo ferie positivo deve effettuare il relativo pagamento compensativo. Secondo la prassi giudiziaria, un motivo oggettivo di questo tipo, che rende necessario il pagamento compensativo, è rappresentato anche dal mancato invito del datore di lavoro a usufruire del saldo ferie residuo prima della modifica del grado di occupazione.
Nel presente caso, il modo di procedere del datore di lavoro non è corretto in quanto avrebbe dovuto chiedere al medico assistente di usufruire delle ferie maturate prima della modifica del grado di occupazione. Se ciò non è stato possibile per motivi aziendali, avrebbe dovuto essere effettuato il relativo pagamento compensativo. Il medico assistente può quindi far valere il proprio diritto a tale pagamento compensativo.
Consiglio pratico in caso di modifica del grado di occupazione: prestate attenzione a usufruire del saldo ferie accumulato dopo il congedo di maternità e attuate la modifica del grado di occupazione solo successivamente. Se ciò non è possibile, regolate espressamente la differenza con il vostro datore di lavoro.
Sandra P. Leemann, giurista delle sezioni asmac Argovia, Soletta, San Gallo/Appenzello, Turgovia e Svizzera centrale, «Giornale asmac» 1/2019
Per la nascita di un figlio, il CCL cui sono soggetto prevede un congedo di nascita di cinque giorni con pagamento del salario intero. Tale congedo di nascita va ad aggiungersi a quello di paternità della durata di dieci giorni recentemente introdotto a livello federale?
Per rispondere a questa domanda è necessario considerare le interazioni tra due diversi tipi di congedo:
- il congedo concesso al padre per la nascita di un figlio e
- il «congedo di paternità» introdotto a livello federale dal 1° gennaio 2021.
Prima del 1° gennaio 2021, quasi tutti i contratti collettivi di lavoro per i medici assistenti e capiclinica prevedevano un congedo di alcuni giorni per la nascita di un figlio che, di norma, era retribuito al 100 percento. Si trattava di un congedo offerto dal datore di lavoro, come quello concesso in occasione delle nozze di un/una lavoratore/trice, di norma retribuito al 100 percento. In genere il congedo per la nascita di un figlio è indicato in un articolo del CCL dal titolo «Congedi speciali» o «Altri congedi» e fa parte delle prestazioni che un datore di lavoro offre ai suoi lavoratori tramite un accordo e mediante le quali concede ai lavoratori un diritto nei confronti del datore di lavoro (diritto privato).
Dal 1° gennaio 2021, la legislazione federale prevede un congedo di paternità di due settimane per il lavoratore, nella misura in cui quest’ultimo sia il padre legale al momento della nascita del figlio o lo diventi nei sei mesi seguenti (art. 329g, cpv. 1 CO). Il congedo può essere goduto su base settimanale o giornaliera (fine settimana incluso), entro sei mesi dalla nascita del figlio. Come per il congedo di maternità, viene retribuito anche il weekend. Il padre ha quindi diritto a 14 indennità giornaliere (due settimane), corrispondenti all’80 percento del salario. Il salario prevede un tetto massimo di CHF 7’350.- al mese, da cui risulta un’indennità giornaliera massima di CHF 196.- al giorno (CHF 7’350.– × 0,8 ÷ 30 giorni = CHF 196.– al giorno). Il congedo corrisponde come massimo a CHF 2’744.- (14 indennità giornaliere x CHF 196.- al giorno) e viene finanziato attraverso l’ordinamento delle indennità per perdita di guadagno (IPG), cioè principalmente tramite i contributi dei lavoratori dipendenti e indipendenti, nonché dei datori di lavoro. Il padre ha quindi un diritto nei confronti dello stato (diritto pubblico).
Ora, quali sono le interazioni tra questi due diritti a un «congedo di paternità»? Come è possibile conciliare le nuove disposizioni federali e quelle esistenti nei CCL? La risposta è controversa. Alcuni autori sono dell’opinione che le nuove disposizioni in materia di «congedo di paternità» rendano impossibile l’applicazione di altre disposizioni, dal momento che il «congedo di paternità» di nuova introduzione è più generoso. Altri sono invece dell’opinione che i due diritti possano coesistere, in quanto di differente natura: il lavoratore ha un diritto nei confronti del datore di lavoro (motivato dal CCL) e un altro diritto nei confronti dello stato (basato sull’articolo 329g CO). Se si considera questa seconda opinione, il lavoratore potrebbe cumulare i due tipi di congedo. Il datore di lavoro potrebbe tuttavia rifiutarsi di accettare tale approccio. Infine, secondo una terza interpretazione, si potrebbe affermare che il datore di lavoro che concede il congedo di nascita di cinque giorni retribuito al 100 percento, deve successivamente pagare le indennità giornaliere relative al congedo di paternità al 100 percento invece che all’80 percento per cinque giorni. Questa soluzione appare equa dal momento che rispetterebbe il diritto di venire retribuiti al 100 percento per cinque giorni fissato nel CCL.
La questione resta però aperta.
Se un ospedale desidera cancellare il congedo di cinque giorni, pienamente retribuito, che il padre ottiene alla nascita di un figlio a favore dell’esclusiva concessione del nuovo «congedo di paternità», sarà necessario rinegoziare il CCL con le associazioni firmatarie. Se il CCL non è ancora stato rinegoziato, lei può provare a pretendere dal suo datore di lavoro che il congedo di paternità sia retribuito al 100 percento (e non all’80 percento con un tetto massimo) per la durata di cinque giorni prevista dal CCL per il congedo di nascita. Questa sarebbe una soluzione equa e sostenibile.
Dott.ssa Valentine Gétaz Kunz, giurista della sezione asmac del Vallese, «Giornale asmac» 1/2022
Nel 2021 entrano in vigore diverse modifiche volte a migliorare la conciliabilità della professione con la vita familiare. Di che cosa si tratta esattamente?
Per molto tempo, i legislatori svizzeri non hanno voluto regolamentare le questioni relative alla conciliabilità della professione con la vita familiare, ritenendo che tale aspetto rientrasse nella sfera privata. In tale ottica, l’assicurazione per la maternità introdotta nel 2005 era stata finora l’unico progresso significativo a livello legislativo. Progressi sono stati fatti anche in numerosi contratti collettivi.
Più recentemente, il processo legislativo è stato velocizzato da iniziative popolari e parlamentari. Dopo la votazione popolare del 27 settembre 2020, ad esempio, è entrato in vigore dal 1° gennaio 2021 un congedo di paternità di due settimane. Inoltre, il 20 dicembre 2019 è stata approvata anche la Legge federale concernente il miglioramento della conciliabilità tra attività lucrativa e assistenza ai familiari, mediante la quale è stato introdotto dal 1° gennaio 2021 un congedo per l’assistenza ai familiari. Successivamente, il 1° luglio 2021, seguirà il congedo per occuparsi di bambini la cui salute sia stata gravemente compromessa a causa di una malattia o di un infortunio.
Infine, il 18 dicembre 2020, i parlamentari hanno approvato il prolungamento del congedo di maternità e delle relative prestazioni assicurative in caso di ricovero ospedaliero prolungato del neonato. La data di entrata in vigore di questa disposizione non è ancora stata fissata.
Qui (in tedesco) potete trovare tutti i dettagli sulle novità legislative.
Christian Bruchez, avvocato della sezione asmac di Ginevra, «Giornale asmac» 1/2021
Perché durante la gravidanza non è possibile far valere le ore di straordinario se si lavora più di 45 ore settimanali?
Il datore di lavoro deve occupare le donne incinte in modo e in condizioni di lavoro tali che la loro salute o la salute del bambino non sia pregiudicata (art. 35 cpv. 1 LL). Le donne incinte non possono assolutamente essere occupate oltre la durata ordinaria concordata del lavoro giornaliero. Se la durata ordinaria concordata del lavoro giornaliero supera le nove ore, essa deve essere limitata a nove ore (art. 60 cpv. 1 OLL 1).
Gli effetti esercitati sulla madre da condizioni di lavoro sfavorevoli si ripercuotono anche sulla salute del figlio e sul suo benessere. La disposizione sopraccitata ha quindi lo scopo di proteggere non solo la salute della donna incinta, bensì in primo luogo quella del nascituro. Essa deve essere pertanto rispettata da tutte le parti, cioè non solo da datori di lavoro e colleghi, ma anche in modo particolare dalle donne in gravidanza stesse, che devono pretendere il rispetto incondizionato dei loro diritti per il bene del nascituro. In questo caso, il dovere del medico di assistere il paziente non è un interesse superiore. Soprattutto in ambito ospedaliero, vi possono infatti sopperire senza problemi i colleghi di lavoro. Inoltre, la maggior parte delle ore di straordinario non sono dovute all’assistenza ai pazienti, bensì a compiti amministrativi che possono in ogni caso essere rinviati o delegati.
Il legislatore ha fissato un limite massimo per il carico di lavoro. Non è consentito lavorare più di nove ore al giorno ed è quindi auspicabile un numero di ore inferiore che è sempre consentito. Durante la gravidanza non possono quindi nemmeno generarsi ore negative che la donna incinta debba successivamente recuperare (durante o dopo il periodo di protezione della maternità). Purtroppo, in molti ospedali si applica tuttora l’orario di lavoro concordato di 50 ore alla settimana, il quale rappresenta anche l’orario di lavoro settimanale massimo previsto dalla legge sul lavoro, di norma ripartito su cinque giorni. Per questo gli orari di servizio delle donne incinte devono essere modificati e ridotti a nove ore. Anche in situazioni eccezionali, non è consentito pretendere prestazioni di lavoro aggiuntive che comportino il superamento di tale limite di nove ore. Anche la ripartizione su più di cinque giorni non sarebbe consentita.
Com’è allora la situazione se il datore di lavoro non richiede prestazioni di lavoro aggiuntive – cioè straordinari – o lo fa anche solo indirettamente? Oppure se la donna in gravidanza ha semplicemente un rimorso per dover abbandonare dopo nove ore il lavoro che sta svolgendo e decide di portarlo a termine comunque? Può compensare tali ore nei giorni successivi? La legge non prevede alcun diritto a una compensazione. Anche il salario è stato concordato in linea di principio per 50 ore settimanali e non per le 45 ore che il legislatore prescrive come orario di lavoro massimo per la tutela delle donne incinte.
Di conseguenza, durante la gravidanza con un grado di occupazione del 100 percento non possono generarsi né ore negative né straordinari. Tuttavia, la situazione può essere diversa nel caso di un grado di occupazione parziale, ad esempio del 50 percento distribuito su cinque giorni, in quanto anche in quel caso si applica l’orario di lavoro massimo giornaliero di nove ore che in realtà però non viene mai raggiunto. Non è quindi necessario alcun adeguamento del piano dei turni e gli orari di lavoro possono essere documentati come di consueto. In questo esempio ciò comporta in effetti una disparità di trattamento tra le donne incinte che lavorano a tempo pieno e quelle con un grado di occupazione a tempo parziale, ma si tratta di una situazione accettabile in quanto la disposizione di legge concernente l’orario massimo di lavoro giornaliero è stata concepita in primo luogo a tutela del nascituro.
I datori di lavoro all’avanguardia hanno riconosciuto i problemi legati alla programmazione basata su un massimo di 50 ore e hanno provveduto a risolverli – anche quelli concernenti le collaboratrici in gravidanza – nel modo più semplice e cioè con una riduzione dell’orario di lavoro per tutti i dipendenti. Alcuni datori di lavoro che ancora applicano l’orario di lavoro di 50 ore hanno quantomeno introdotto una rilevazione degli orari separata per le donne in gravidanza. La soluzione ideale è che, al momento dell’annuncio della gravidanza, i saldi orari vengano «congelati» per poi essere ripristinati e portati avanti dopo il congedo di maternità. Nel frattempo si applica l’orario di lavoro massimo di 45 ore settimanali rispettivamente di nove ore al giorno. Le donne incinte vengono addirittura esortate dai loro superiori a rispettare assolutamente la durata giornaliera massima del lavoro e – se le esigenze dell’azienda lo consentono – a generare ore negative che poi non hanno rilevanza e vengono cancellate senza alcuna compensazione. Qualora, nel singolo caso, un’emergenza aziendale dovesse comportare il superamento delle nove ore massime consentite, che spesso non possono nemmeno essere registrate, la donna incinta dovrebbe avere la possibilità di uscire un po’ prima nei giorni successivi senza nessuna giustificazione o trovare il coraggio di lavorare meno.
Importante è anche che le mansioni delle donne in gravidanza vengano adeguate al numero di ore ridotto e che qualsiasi lavoro gravoso o pericoloso venga eliminato mediante una valutazione dei rischi (art. 35 cpv. 2 LL).
Susanne Hasse, avvocatessa e direttrice della sezione asmac di Zurigo, «Giornale asmac» 4/2022
Sono un medico assistente e ho firmato un contratto di lavoro con il mio futuro datore di lavoro. Un mese prima dell’entrata in servizio, l’ho informato della mia gravidanza. A quel punto, il datore di lavoro mi ha comunicato di voler recedere dal contratto in quanto, a suo dire, l’impiego previsto non sarebbe possibile a causa della gravidanza. L’impiego come medico assistente sarebbe infatti faticoso e, a causa della scarsità di personale, sarebbe necessario prestare turni di lavoro notturni più lunghi. In questo caso, il mio datore di lavoro è autorizzato a recedere dal contratto? E, se non lo è, come devo procedere?1
L’uguaglianza tra donne e uomini è un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione federale (art. 8 cpv. 3 CF). Negli ultimi decenni, tale parità tra i generi ha generato una complessa discussione di enorme importanza politica. Per quanto concerne la vita lavorativa, dovrebbe essere effettivamente possibile garantire pari opportunità. Un risultato di tale dibattito a livello politico è rappresentato dalla Legge sulla parità dei sessi (LPar, RS 151.1), che mira a prevenire le discriminazioni professionali in base al genere. Secondo l’art. 1, la Legge sulla parità dei sessi mira a promuovere l’uguaglianza effettiva fra donna e uomo. Purtroppo, in vari ambiti della vita quotidiana (professionale), tale uguaglianza è ancora solo teorica, come dimostrano, ad esempio, le differenze salariali ancora presenti in molti luoghi. Ci si propone di contrastare tale situazione tramite l’obbligo, in vigore dal 1° luglio 2020 per i datori di lavoro con almeno 100 dipendenti, di eseguire entro un anno un’analisi della parità salariale, facendola controllare da un organo indipendente e informando il personale in merito al risultato. In tal modo si punta a imporre il rispetto del diritto costituzionale all’uguaglianza salariale e delle mansioni. Secondo l’art. 16 cpv. 1, al centro della LPar ci sono la «parità dei sessi in tutti gli ambiti della vita» e l’impegno per «per eliminare qualsiasi forma di discriminazione diretta o indiretta». La LPar si applica a tutti i campi della vita lavorativa, dall’assunzione al perfezionamento professionale, fino ad arrivare al licenziamento, al salario e alle molestie sessuali.
Ai sensi dell’art. 3 cpv. 1 LPar, i lavoratori e le lavoratrici non devono essere pregiudicati né direttamente né indirettamente a causa del loro sesso, segnatamente con riferimento allo stato civile, alla situazione familiare o – nel caso delle lavoratrici – a una gravidanza. Secondo il cpv. 2 dello stesso articolo, tale divieto di discriminazione si applica in particolare all’assunzione. Ai sensi dell’art. 5 LPar, chi è vittima di una discriminazione di questo tipo può intentare un’azione presso l’autorità di conciliazione paritetica competente. Nel presente caso, si tratta di una disdetta prima dell’entrata in servizio, cioè di un licenziamento potenzialmente discriminatorio, contro il quale la lavoratrice può presentare un reclamo all’autorità di conciliazione competente. Quest’ultima dovrà poi verificare se il licenziamento pronunciato può costituire o meno una forma di discriminazione.
Nel presente caso non si capisce perché la lavoratrice dovrebbe essere non idonea all’attività concordata. Essa avrebbe infatti potuto svolgere legittimamente l’attività fino a due mesi prima del parto. Fino a tale data il lavoro notturno è espressamente permesso anche alle donne incinte (art. 35a cpv. 4 Legge sul lavoro, LL). Successivamente, la lavoratrice avrebbe potuto essere impiegata in altro modo durante il giorno. Il licenziamento è pertanto avvenuto solo a causa della gravidanza comunicata e rientra pertanto nell’ambito di applicazione del divieto di discriminazione. Il datore di lavoro non può addurre alcuna ragione fattuale che possa giustificare il licenziamento. Al contrario, il datore di lavoro ha ragionevolmente la possibilità di rimediare alla carenza di personale, in modo da garantire il rispetto della durata massima consentita dei turni.
Nel presente caso, sussisteva una correlazione diretta tra il licenziamento e la gravidanza, motivo per il quale al datore di lavoro è stato imposto l’obbligo di pagare un risarcimento pari a tre mensilità di salario sulla base del divieto di discriminazione previsto dall’art. 5 LPar. Il datore di lavoro non può quindi semplicemente recedere dal contratto. Presentando un reclamo contro il licenziamento e rivolgendosi all’autorità di conciliazione, la lavoratrice può opporsi con successo. Se siete vittime di una discriminazione sulla base del genere, rivolgetevi con fiducia ai giuristi e alle giuriste di sezione. Saremo lieti di aiutarvi.
1 Sulla base del caso dell’autorità di conciliazione secondo la legge sulla parità dei sessi del Canton Zurigo, procedimento 20/2016 in: Entscheide nach Gleichstellungsgesetz (Decisioni secondo la legge sulla parità dei sessi, in tedesco), https://www.gleichstellungsgesetz.ch/d103-1778.html (visitato il: 26 agosto 2021).
Samuel Nadig, giurista e direttore della sezione asmac Grigioni, «Giornale asmac» 6/2021
Vorrei continuare ad allattare mio figlio anche dopo la fine del congedo di maternità. In quanto madre che allatta, quali diritti posso far valere?
Diritti delle madri allattanti contenuti nella legge sul lavoro e nelle relative ordinanze:
- Una madre che allatta può essere impiegata solo con il suo consenso. Nelle prime otto settimane dopo il parto per la madre vige il divieto assoluto di lavorare. La madre può prendere un totale di 16 settimane di congedo di maternità, delle quali però solo 14 sono obbligatoriamente retribuite. Fino alla 16a settimana successiva al parto, la madre può anche rifiutarsi di lavorare di notte (tra le ore 20 e le ore 6). Il datore di lavoro è tenuto a offrirle un lavoro equivalente di giorno. Se non è in grado di farlo, la madre allattante può restare a casa e riceve l’80 percento del salario.
- I datori di lavoro sono responsabili di assicurare che la salute dei loro dipendenti e del neonato non sia messa in pericolo. Le condizioni di lavoro delle madri devono essere adattate di conseguenza da quel momento in poi.
- Una madre che allatta non deve svolgere alcun lavoro che, secondo la valutazione dei rischi, sia considerato pericoloso o gravoso. Le deve essere offerto un lavoro equivalente non pericoloso e, se ciò non è possibile, la madre ha il diritto di restare a casa ricevendo comunque il salario (80 percento del salario, artt. 62 e 64 OLL1).
- Una madre allattante non può lavorare per più di nove ore al giorno, anche se nel suo contratto sono previste più ore (art. 60 cpv. 1 OLL1). Per questo non è consentito convocare per il servizio di picchetto lavoratrici appartenenti a questa categoria. Durante tale periodo, l’orario di lavoro teorico registrato dovrebbe essere modificato di conseguenza.
- Una madre allattante ha il diritto di sdraiarsi e riposare in condizioni adeguate (all’interno dell’azienda deve essere allestita una stanza apposita, art. 34 OLL3).
- Una madre allattante non può essere impiegata nel lavoro a turni con un sistema di turni che preveda una rotazione regolare in senso inverso (notte – sera – mattino) o lavorare più di tre notti consecutive (art. 14 Ordinanza sulla protezione della maternità).
Pause retribuite per l’allattamento:
Alle madri allattanti deve essere concesso il tempo necessario per allattare o per pompare il latte. A tale scopo, nel primo anno di vita del bambino (52 settimane) vengono conteggiati come orario di lavoro:
- per una durata del lavoro giornaliero fino a 4 ore: almeno 30 minuti
- per una durata del lavoro giornaliero superiore a 4 ore: almeno 60 minuti
- per una durata del lavoro giornaliero superiore a 7 ore: almeno 90 minuti
La madre può usufruire di tali pause in un’unica soluzione o distribuendole in diversi momenti, in base alle esigenze fisiologiche del bambino. Queste disposizioni riguardano la durata minima delle pause che devono essere conteggiate come orario di lavoro. Qualora il bambino, per motivi fisiologici, necessiti di pause più lunghe, la madre è autorizzata ad assentarsi dal lavoro anche più a lungo (vedi anche l’art. 35a LL). In assenza di accordi in altro senso tra il datore di lavoro e la lavoratrice in questione, il tempo necessario che eccede le durante minime stabilite viene conteggiato come ore di lavoro non retribuite. Un eventuale accordo può anche prevedere una riduzione dell’orario di lavoro giornaliero.
Indipendentemente dal fatto che allatti in azienda o che lasci il posto di lavoro per allattare, la lavoratrice ha a disposizione pause per allattare della stessa durata. Questa disposizione vale anche per le donne che pompano il latte.
Importante:
Finché lei allatta, l’orario di lavoro deve essere limitato a 9 ore al giorno, indipendentemente da ciò che è stato concordato contrattualmente, e non è consentito svolgere servizio di picchetto. Ciò vale tuttavia solo per il primo anno dopo il parto e quindi per un totale di 52 settimane.
Sandra P. Leemann, giurista delle sezioni asmac Argovia, Soletta, San Gallo/Appenzello, Turgovia e Svizzera centrale, «Giornale asmac» 4/2021
Recentemente ho avuto un colloquio di presentazione per un posto di lavoro. Durante il colloquio mi è stato chiesto se ero incinta o se avevo in programma di costituire una famiglia nei mesi successivi. Domande di questo tipo sono consentite?
In linea di principio, un datore di lavoro, durante il colloquio per un posto di lavoro, ha il diritto di porre domande che siano direttamente e oggettivamente correlate alla prestazione lavorativa da svolgere. Ciò non vale tuttavia per le informazioni che riguardano la sfera privata del candidato o della candidata.
Può tuttavia sussistere un legittimo interesse del datore di lavoro a informarsi sulla sfera privata del candidato o della candidata, poiché essa ha conseguenze dirette sul rapporto di lavoro. Tale interesse è però in conflitto con il diritto del candidato o della candidata alla protezione della propria personalità, come ad esempio nel caso di domande relative a stato di salute, gravidanza o precedenti penali. In tale situazione occorre quindi effettuare una ponderazione degli interessi. Solo se lo svolgimento dell’attività professionale dipende dall’informazione in questione – e non solo a causa di eventuali difficoltà di lieve entità – il datore di lavoro ha il diritto di porre le relative domande e trarre le relative conseguenze sulla base delle risposte ricevute.
La condizione sopraccitata vale ovviamente per le domande concernenti la gravidanza della candidata, indipendentemente dal fatto che si riferiscano a una gravidanza in atto o all’intenzione di avere figli. In generale, e in particolare per i medici assistenti e i capiclinica donna, si può partire dal presupposto che domande sulla gravidanza – sia in atto che pianificata – costituiscano un’illegittima violazione della personalità della candidata. Infatti, anche se la gravidanza e la successiva maternità hanno ripercussioni sul rapporto di lavoro (a causa delle disposizioni sulla tutela e della successiva assenza durante il congedo di maternità), lo svolgimento dell’attività professionale non risulterà mai impossibile. Sono escluse situazioni particolari che possono colpire sia le donne che gli uomini come gravi malattie, infortuni ecc.
Le uniche situazioni in cui il datore di lavoro avrebbe il diritto di porre domande in relazione alla gravidanza sono al di fuori dell’ambito medico. Ad esempio, se si tratta di assumere una ballerina per uno spettacolo che si deve svolgere qualche mese più tardi. In tal caso appare logico che un’eventuale gravidanza deve essere nota al potenziale datore di lavoro, poiché da ciò dipende la possibilità di adempiere il contratto di lavoro.
Come deve reagire una lavoratrice che, durante il colloquio di presentazione per un posto di lavoro, si trovi comunque confrontata con domande di questo tipo? La questione è soprattutto se sussista o meno un diritto di mentire. Le opinioni dei commentatori del diritto del lavoro su tale questione sono controverse. Personalmente, io sono dell’opinione che tale diritto sussista pienamente, dal momento che rappresenta una reazione a un comportamento illecito del datore di lavoro. Se la lavoratrice rispondesse in modo veritiero alla domanda posta illegittimamente, non verrebbe assunta, il che non farebbe altro che rafforzare l’atteggiamento discriminatorio del datore di lavoro.
A tale proposito va detto inoltre che la Legge federale sulla parità dei sessi vieta la discriminazione delle lavoratrici sulla base del sesso e segnatamente con riferimento a una gravidanza. Il divieto si applica in particolare alle assunzioni. Quindi, se una lavoratrice non viene assunta a causa della sua gravidanza o se viene licenziata per tale motivo durante il suo periodo di prova, in cui non è direttamente tutelata, tale licenziamento è da considerarsi abusivo in quanto discriminatorio sulla base del sesso.
Dopo il periodo di prova, la lavoratrice gode di una migliore tutela poiché un licenziamento durante la gravidanza e durante le 16 settimane successive al parto sarebbe semplicemente nullo. Nonostante ciò, il datore di lavoro ha il diritto di essere informato al momento opportuno sulla gravidanza delle sue collaboratrici, poiché deve poi adottare misure adeguate per proteggere la salute delle donne incinte e misure organizzative. Spetta pertanto alla lavoratrice informare il suo datore di lavoro o il futuro datore di lavoro in tempo utile, cioè più o meno al terzo mese di gravidanza. Se prima dell’inizio del servizio non è ancora stato stipulato un contratto, è consigliabile richiedere una conferma di assunzione.
Patrick Mangold, giurista della sezione asmac Vaud, «Giornale asmac» 3/2020
Sono incinta e lavoro al 100 percento. Mi sento estremamente stanca, ma non ho complicazioni della gravidanza. Vorrei restare a casa alcuni giorni per riposarmi. Posso farlo? Durante l’assenza riceverò il mio salario?
In generale, il datore di lavoro è tenuto a tutelare la salute delle madri e delle donne incinte durante la maternità. Per questo deve garantire condizioni di lavoro adeguate (art. 35 della legge sul lavoro, LL). In tale contesto, citiamo il testo letterale dell’art. 35a LL che regola l’occupazione durante la maternità:
- Le donne incinte e le madri allattanti possono essere occupate solo con il loro consenso.
- Le donne incinte possono assentarsi dal lavoro mediante semplice avviso. Alle madri allattanti deve essere concesso il tempo necessario all’allattamento.
- Le puerpere non possono essere occupate durante le otto settimane dopo il parto; in seguito, e fino alla sedicesima settimana, possono esserlo solo con il loro consenso.
- Le donne incinte non possono essere occupate tra le 20 e le 6 nelle otto settimane precedenti il parto.
Riassumendo, durante la gravidanza, lei può assentarsi dal lavoro in qualsiasi momento o lasciarlo, a condizione che ne informi senza indugio il datore di lavoro. Per garantire il suo diritto al salario deve presentare un certificato medico che, di norma, deve essere presentato a partire dal terzo giorno di assenza, anche se questa regola può variare.
Valentine Gétaz Kunz, avvocatessa della sezione asmac del Vallese, «Giornale asmac» 4/2019
Lavoro come medico assistente in un piccolo ospedale di campagna. Quando sono in servizio di sera e il turno dura più del previsto, mi capita relativamente spesso di perdere l’ultimo treno. A quel punto, per arrivare a casa non mi resta altro che prendere un taxi dal costo elevato. Devo veramente accollarmi io questi costi o il mio datore di lavoro è tenuto a rimborsarmeli?
In caso di lavoro notturno, l’art. 17e LL in combinato disposto con l’art. 46 OLL 1 obbliga il datore di lavoro a prevedere ulteriori misure a tutela dei lavoratori, segnatamente con riferimento alla sicurezza del tragitto da e verso il luogo di lavoro, all’organizzazione del trasporto, nonché alle possibilità di riposo, ristorazione e custodia dei figli.
Nella situazione sopradescritta la dottoressa, alla fine del turno serale, si vede costretta a prendere un taxi per tornare a casa a causa dell’assenza di mezzi di trasporto pubblici. Se non ci sono più mezzi di trasporto pubblici disponibili, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 46 lett. b OLL 1, è tenuto a mettere a disposizione mezzi di trasporto. Una possibile alternativa al mezzo di trasporto pubblico sarebbe l’organizzazione da parte del datore di lavoro di un servizio di minibus, un servizio di car sharing tra il personale o un servizio di taxi. Dall’art. 46 lett. a OLL 1 si evince anche che il mezzo di trasporto deve essere sicuro.
Tuttavia, il datore di lavoro non ha solo l’obbligo di mettere a disposizione mezzi di trasporto, ma deve anche assumersi i relativi costi aggiuntivi. Dato che il lavoro notturno è vantaggioso soprattutto per il datore di lavoro, sarebbe seccante se i lavoratori dovessero anche accollarsi tali costi aggiuntivi. Non sarebbe consentita, ad esempio, l’organizzazione da parte del datore di lavoro di un servizio di taxi per il rientro a casa con costi a carico dei lavoratori. Il datore di lavoro ha però il diritto di esigere da questi ultimi un contributo ai costi delle misure adottate per il lavoro notturno. A tale proposito, per la suddivisione dei costi tra il datore di lavoro e i lavoratori, dovrebbe essere utilizzata la seguente regola: i costi di trasporto in caso di lavoro notturno non dovrebbero risultare per i lavoratori superiori a quelli che sostengono per il lavoro diurno.
Concludendo, dato che, ai sensi dell’art. 17e LL in combinato disposto con l’art. 46 lett. b OLL 1, il datore di lavoro, in assenza di mezzi di trasporto pubblici, è tenuto a mettere a disposizione mezzi di trasporto, la dottoressa può chiedergli il rimborso del taxi che le causerebbe costi aggiuntivi.
Sandra P. Leemann, giurista delle sezioni asmac Argovia, Soletta, San Gallo/Appenzello, Turgovia e Svizzera centrale, «Giornale asmac» 6/2019